Vincenzo Noto

 

 

 

 

Per un Paese solidale

Documento dei vescovi a 20 anni da “Sviluppo nella solidarietà”

“Il Paese non crescerà se non insieme”. A ribadirlo, a 20 anni dalla pubblicazione del documento “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno”, sono i vescovi italiani, nel documento dal titolo: “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”, diffuso il 24 febbraio (testo integrale su Agensir.it). “Anche oggi – si legge nell’introduzione – riteniamo indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo”, a partire dalla consapevolezza che “il bene comune è molto più della somma del bene delle singole parti”. “Affrontare la questione meridionale diventa un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi e sul cammino delle nostre Chiese”, spiegano i vescovi, precisando che il punto di partenza del testo è “la constatazione del perdurare del problema meridionale”, unita alla “consapevolezza della travagliata fase economica che anche il nostro Paese sta attraversando”. Tutti “fattori”, questi, che per la Cei “si coniugano con una trasformazione politico-istituzionale, che ha nel federalismo un punto nevralgico, e con un’evoluzione socio-culturale, in cui si combinano il crescente pluralismo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose per effetto dei fenomeni migratori”. “In una prospettiva di impegno per il cambiamento, soprattutto i giovani sono chiamati a parlare e testimoniare la libertà nel e del Mezzogiorno”, si legge nella parte finale del testo, in cui si auspica “un grande progetto educativo” per promuovere la “cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità”. “Bisogna osare il coraggio della speranza!”, è l’invito finale del documento, caratterizzato “nonostante tutto” da “uno sguardo fiducioso”, che sappia “ricercare il bene comune senza cedere a paure ed egoismi che lamentano miopi interessi di parte e mortificano la nostra tradizione solidaristica”.

 

Rilanciare le politiche di intervento. “Il complesso panorama politico ed economico nazionale e internazionale”, aggravato dalla crisi, “ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo”. È il grido d’allarme dei vescovi, secondo cui “il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici che una democrazia più diretta nella gestione del territorio avrebbe auspicato”. Di qui la necessità di “ripensare e rilanciare le politiche di intervento” a favore del Sud, per generare “iniziative auto-propulsive di sviluppo”. Il fenomeno delle “ecomafie” e la “questione ecologica”, la “fragilità del territorio” e la “massiccia immigrazione” che ne ha fatto il “primo approdo della speranza per migliaia di immigrati”: queste le “vecchie e nuove emergenze” del Mezzogiorno, che per i vescovi può diventare un “laboratorio ecclesiale” in materia di “accoglienza, soccorso e ospitalità”, ma anche di dialogo interreligioso con immigrati e profughi.

 

Federalismo e ruolo dello Stato. Un “sano federalismo”, per la Cei, “rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio, se riuscisse a stimolare una spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali, soprattutto attraverso l’azione dei governi regionali e municipali”. Tuttavia – ammoniscono i vescovi – “la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell’occupazione, nelle dotazioni produttive, infrastrutturali e civili”. Sul piano nazionale, per la Cei, “sarà necessario un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un’attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l’integrazione sociale”.

 

Le mafie, “strutture di peccato”. Una delle “piaghe più profonde e durature” del Sud. Un vero e proprio “cancro”. Così i vescovi definiscono la mafia, anzi le mafie, che “avvelenano la vita sociale, pervertono la mente e il cuore di tanti giovani, soffocano l’economia, deformano il volto autentico del Sud”. “La criminalità organizzata – il monito dei vescovi – non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici, favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale”. Al Sud, “le mafie sono strutture di peccato”, denunciano i vescovi: “Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e immolarsi”. Come hanno fatto “i numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia”, tra cui don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana e il giudice Rosario Livatino. Ma l’economia illegale “non s’identifica totalmente con il fenomeno mafioso”, avverte la Cei, stigmatizzando “diffuse attività illecite ugualmente deleterie”, come usura, estorsione, evasione fiscale, lavoro nero.

 

Povertà, disoccupazione e emigrazione interna. Sono queste le principali “emergenze” del Sud. I giovani del Meridione non devono sentirsi condannati a una perenne precarietà”, esclamano i vescovi, che al Sud auspicano “migliori politiche del lavoro”. Un esempio virtuoso è rappresentato dal Progetto Policoro della Cei. No, invece, al “lavoro sommerso”, che “non è certo un sano ammortizzatore sociale”. Infine, “il flusso migratorio dei giovani, soprattutto fra i 20 e i 35 anni, verso il Centro Nord e l’estero”, che dà luogo ad una categoria di “nuovi emigranti” composta da figure professionali di livello medio-alto, “cambia i connotati della società meridionale” e provoca “un generale depauperamento”.

 

 

dal SIR

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009