Vincenzo Noto

 

 

  

La città “nuova” tende a globalizzarsi

 

 

Nel momento in cui cresce il dibattito sui problemi della città in vista dei compiti che attendono i prossimi amministratori che i cittadini sono chiamati a eleggere, può essere utile soffermarci a considerare il cambiamento epocale che i centri urbani oggi attraversano. Cosa c’è di veramente epocale in questo cambiamento?

Rileggendo la storia, è possibile riscontrare come il passato delle città fosse un fattore inerziale del suo cambiamento, del suo futuro. Le città attraversavano delle fasi che le preparavano alle successive. È vero che, oggi, invece, il futuro delle città non è più scritto nel suo passato e che quelle che hanno un “futuro” siano le città che l’hanno già scelto?

Per dare una risposta, possiamo esaminare, innanzitutto, le caratteristiche della “nuova” città.

La città “nuova” si deindustrializza, le industrie si trasferiscono fuori della città o sorgono fuori della cintura urbana; gli antichi stabilimenti diventano musei, auditori, facoltà universitarie, alberghi (Mirafiori, Lingotto, Bicocca, sono alcuni esempi). Sono cambiamenti che si riscontrano in tanti paesi del mondo.

La città “nuova” tende a globalizzarsi, come punto nodale delle reti che collegano le aree forti della cultura, dei commerci, della finanza, delle innovazioni. Si caratterizza per grandi eventi, mostre, luoghi di consumo e centri terziari e finanziari. È, quindi, come un contenitore dove vengono concentrate abilità e risorse; la città che riesce a incanalarne una gran parte, si rende più potente in termini d’influenza su quel che avviene nel mondo. Questa città attenua, per converso, il rapporto col tradizionale territorio, nazionale o regionale, coll’effetto probabile di determinare disuguaglianze e sacche di nuova povertà urbana, aumento delle tensioni e del grado d’insicurezza.

La città “nuova” si fa impresa. Oggi si parla di città creativa e di marketing urbano: le scuole, i musei, le università, diventano investimenti, come dovessero dare una resa, e gli abitanti appaiono come clienti o come azionisti. I quartieri più deboli rischiano di distinguersi per povertà ed emarginazione.

La città “nuova” compete, deve reinventarsi per attrarre capitali, per gareggiare con altre città in un nuovo mercato in cui l’offerta di città è superiore alla domanda. Conseguentemente, le città devono rincorrere la domanda, devono rincorrere il cittadino.

La città “nuova” si fa palcoscenico, si autopromuove, produce eventi, movida; chiunque è oggi spettatore e attore, fa parte dell’evento (pensiamo al pubblico dello stadio, il “dodicesimo giocatore”).

La città “nuova” è “alla carta”, non dorme mai, è “usata” ventiquattro ore, lotta contro l’oscurità, senza fermarsi mai.  Ogni individuo si può ritagliare una città a propria misura, grazie a consumi “no stop” (nei grandi magazzini, nei bingo, non esistono orologi, si deve perdere il senso del tempo).  Si balla, si beve, si consuma in continuità.

La città “nuova” è ubiqua, si espande nel territorio, paradossalmente ha più centri. L’ubiquità si sovrappone alla centralità della città, dove le persone si connettono grazie al wifi e viaggiano entro una bolla (auto, con cellulare).

A questo punto, di fronte alla “nuova” città, sarebbe interessante leggere i risultati del misuratore di benessere a essa applicato. Il Bhutan usa da anni - ancor prima del presidente francese Sarkozy - il FIL (Felicità Interna Lorda), un misuratore di benessere alternativo rispetto al Prodotto Interno Lordo.

Italo Calvino, nella sua opera, “Le città invisibili”, fa dire a Marco Polo che …“ogni città è una società che amplifica l'essenza di qualche domanda che l'uomo si pone, e a ciascuna domanda corrisponde una forma, brillantemente e sorprendentemente concepita, che completa e dà corpo a quella domanda… L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; è quello che già è qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo ne riesce facile a molti: accettare l'inferno, e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio”.

Dalle parole di Calvino si evince, tra l’altro, che i cittadini di qualsiasi genere devono avere la possibilità di vedere esaudita la propria domanda, di esercitare il loro diritto alla città. Questo diritto consiste nella richiesta di risposte che la città deve fornire alle domande dei cittadini. Quali sono oggi le principali domande che vengono rivolte alla città?

Domanda di sicurezza, cioè di vivere la città senza paura. Anche alcuni lampioni rotti per mesi e l’assenza dello Stato hanno un grande potere ansiogeno.

Domanda di qualità del vivere, come anche la richiesta di un clima positivo (le stesse industrie cercano la nuova localizzazione nei luoghi più confortevoli, come, ad esempio, in Francia, dove l’industria innovativa si è installata vicino alla Costa Azzurra piuttosto che in Alsazia e Lorena).

Domanda di sostenibilità, cioè richiesta di una città capace di svilupparsi secondo modalità che non danneggino il sistema ecologico.

Domanda all’accoglienza, che può, d’altra parte, determinare la paura dei residenti e problemi legati alla sicurezza.

Domanda d’interazione nella diversità, di convivenza nella diversità. La città è un patto tra diversi, c’è di tutto, c’è l’uomo colto e c’è il banale, è fatta di diversi che devono convivere. Le varie domande dei diversi abitanti possono essere in conflitto tra loro (ad esempio, c’è chi vuole la movida e chi vuole tranquillità).

Domanda di partecipazione, cioè i cittadini hanno il diritto di scegliere come la città deve crescere, di essere coinvolti nelle scelte.

Domanda di bellezza, fattore, d’altra parte, che è generatore di ricchezza, in grado di richiamare capitali.

In conclusione, di fronte ad una città come Palermo - per certi versi “nuova” - i suoi futuri amministratori dovrebbero essere spinti ad amministrarla non guardandola essenzialmente “dall’alto”, come può capitare a un architetto lusingato per la “perfezione” del suo plastico, che rappresenta il suo progetto.

Ricordo, a proposito, Giuseppe Pavone, urbanista e sociologo dell’Università di Palermo, che amava sottolineare che la città va studiata anche immedesimandosi “nel vecchietto che, trasferito dall’animata e colorita vita dei vicoli della città antica, deve vivere poi i suoi giorni in una stanza dell’ultimo piano di un isolato casermone dello Zen”! Ciò vuol dire che la città va guardata con gli occhi del cittadino, del pedone, cioè tenendo lo sguardo orientato verso la persona.

 

Giovanni Leone

          

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009