Vincenzo Noto

 

 

A testa alta

 

Ho guardato come tanti le immagini televisive che ci trasmettevano quanto accade in Libia. Erano le solite immagini crude che accompagnano i nostri pranzi distratti come distratti sono i nostri occhi a guardare. Ma è il commento che mi cattura. La voce del giornalista fuori campo. I corpi che ci vengono mostrati sono di semplici soldati libici, per la maggior parte ragazzi, giustiziati perché si sono rifiutati di sparare sulla folla. Hanno vent’anni. E in un attimo, un attimo allucinato di estrema consapevolezza, l’attimo che precede l’ irreversibilità della scelta, hanno deciso di dire : “No”. Di disubbidire agli ordini. Hanno accettato di morire, e di farlo a testa alta. Resto incantata da tanto coraggio e anche da tanta dignità. Non è mai facile morire. Figuriamoci a vent’anni!

Io insegno storia. Tante volte mi sono chiesta, davanti alla sconcertante pianificazione dei campi di sterminio nazisti come dei gulag sovietici, di fronte alla disumane condizioni di vita dei prigionieri, in faccia alle vessazioni e alle torture,durante gli stermini della guerra serbo-bosniaca, nelle dittature dell’Indocina, ma possibile che non si trovasse la forza di “disobbedire agli ordini”? Possibile accettare come normale l’estenuante ritornello dei processati di Norimberga: “Io obbedivo agli ordini”? Possibile che a progettisti, ufficiali, soldati, torturatori, carcerieri,  a nessuno fosse passato per la testa che “l’obbedienza non era più una virtù? ”e che ci sono leggi a cui non è lecito obbedire perché fatte contro l’uomo? Ma dov’era l’uomo? Persino nel diritto romano, molto prima del giusnaturalismo, delle rivoluzioni illuministe, valeva il principio che “Hominum causa omne jus constitutum est” (Per l’uomo è costituita ogni legge).

Lo so che la mia domanda ha interrogato tanti uomini di cultura, che il dopoguerra è stato attraversato da questa inquietudine ineludibile. Eppure porsi la domanda era già qualcosa, un modo per scuotere le coscienze, per cercare di rifondare la società , una nuova società fondata sulla libertà e sulla giustizia.

Oggi sento che non ci facciamo più domande. La nostra esistenza si snoda tra pratiche e pensieri omologati e omologanti, si intreccia di realtà virtuali e di finzioni in una liquidità sospesa in cui non troviamo spesso alcun appiglio né affettivo né intellettuale né lavorativo, dove persino la concretezza si esplica in un elenco di cose da fare alle quali stentiamo a dare nome e gerarchia,   e ci appare normale che ogni nostra scelta sia guidata da criteri di convenienza, utilità personale o di parte, da scetticismo individualistico in virtù del quale ci autoassolviamo del nostro opportunismo.

I corpi ammassati dei ragazzi di Libia mi hanno fatto pensare.  Ed è bello che questa  lezione a noi Europei ci venga dai ragazzi di un Paese che noi consideriamo arretrato. A riprova che non bastano i parametri del PIL per misurare l’uomo.

 Dando fondo a tutto il loro coraggio, questi ragazzi ci hanno restituito il senso della vita e il gusto della libertà. In un Paese come il  nostro dove il successo, il potere, la ricchezza, il consumismo, l’edonismo tendono a farsi misura di comportamenti individuali e collettivi, (e a chi non ci si adegua, resta talvolta praticabile solo il ruolo della sottrazione), questi ragazzi di Libia ci restituiscono l’uomo e ci sollecitano speranza. Muoiono con dignità come i tanti ragazzi che hanno fatto il Risorgimento e la Resistenza e di cui ci siamo dimenticati. Muoiono a testa alta! Ma ci insegnano anche che a testa alta è  possibile vivere, sapendo, quando le circostanze lo richiedono, dire di no.

Teresa Piccione

 

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009