Vincenzo Noto

 

 

CULTURAME

 

Circa mezzo secolo fa un illustre politico siciliano - che Indro Montanelli, indignato perché non lo  avevano gratificato del laticlavio senatoriale vitalizio, definì “galantuomo a vita” –, a proposito del mondo della cultura italiana del suo tempo,  se ne uscì con una definizione che suscitò un vespaio di polemiche. Senza peli sulla lingua com’era nel suo stile, Mario Scelba definì “culturame” quel complesso mediocre di intellettuali, asserviti all’ideologia comunista, che avevano occupato, nella indifferenza del partito di maggioranza relativa – e questa è la grande colpa della Democrazia cristiaca -, tutti gli spazi della cultura nazionale.

 

Il povero Scelba fu tacciato, dagli organi di stampa e da questo vivace manipolo di intellettuali – o, meglio, pseudo tali -, di ignoranza, di oscurantismo con termini così forti e sprezzanti che sicuramente, per la sua storia e per la sua dirittura morale, non meritava. Allora, intimiditi dalla veemenza, ma soprattutto, dalla supponenza di questa gente, nessuno osò difendere il politico siciliano, lasciando che la sua sacrosanta denuncia cadesse nel vuoto e permettendo per di più di legittimare la gente che lo aveva offeso.

 

Di quel “culturame” furono vittime tanti veri intellettuali la cui maggiore colpa era quella di non fare parte del coro, o di non volere fare parte del coro socialcomunista. Fra questi non si può dimenticare Giuseppe Tomasi di Lampedusa la  cui opera, Il Gattopardo, solo un fortuito caso salvò dall’oblio.

Scomparso il comunismo, affondata nel mare tragico dell’orrore sovietico l’utopia marxista, gli epigoni di quel mondo che il povero Scelba aveva cercato di stanare dalle comode nicchie nelle quali si era collocato, continuano ad imperversare cercando di offrirsi come campioni di una nuova moralità consacrata dalla cultura dei cui riti e delle cui liturgie proprio quel mondo si considera geloso depositario.

A guardarsi attorno, a vedere certi appelli, carichi di cretinismo ideologico  non starebbe male che si riesumasse il termine “culturame” assumendone noi stessi, e fino in fondo, la carica offensiva che si deve assegnare al neologismo.

Sì, perché mi pare che in questo secondo tempo del post-dopoguerra vi sia qualcosa di più eversivo della nostra visione del mondo di quella che portavano avanti quegli intellettuali, o pseudo-tali, che Mario Scelba aveva osato sfidare.

Lo osserviamo, giorno dopo giorno, sulle pagine dei giornali, negli spazi televisivi, in libri e riviste la aggressività di certi personaggi carichi di verità apodittiche che non possono essere messe in discussione, quasi fossero ineludibili dogmi della cosiddetta modernità, l’unica chiesa a cui il tempo presente concederebbe diritto di cittadinanza.

Allora, seppure con le cautele che il mondo cattolico o di quello che si riconosceva nei cosiddetti valori occidentali  che poi sono soprattutto cristiani, riusciva in qualche modo a fare barriera sull’opinione pubblica, oggi asfissiati dal relativismo storico e resi acidi dal corrosivo laicismo scientista, non vi sono più barriere che si intestino di frenare superficialità e ignoranza.

Viviamo in una realtà che ha prodotto venefici elisir che la gente assorbe quasi con soddisfazione e che, in assenza di una vera presa di coscienza che faccia perno sul buon senso, potrebbe abbandonarci ad un deriva dalla quale nessuno potrebbe salvarci, perché ormai un dato consolidato, che l’uomo ai limiti imposti dalla saggezza preferisce farsi sedurre da  chi offre felicità a basso costo.

Queste considerazioni mi portano a coltivare la speranza che, abbandonati i complessi di inferiorità e vaccinati rispetto al morbo perbenistico, si possa finalmente gridare che quel culturame è un “re nudo” che va denunciato per quello che è.

 

Pasquale Hamel

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009