Vincenzo Noto

 

 

Scienza e fede, 400 anni dopo Galileo

 

Nell'anno dedicato al grande scienziato si anima il dibattito sul rapporto tra la fede e la scienza. Mentre Il costante lavoro di avvicinamento alla conoscenza delle leggi della natura sembra spingere a contemplare le opere di un Dio creatore.

 

La riabilitazione di Galileo Galilei del 1992, Giovanni Paolo II volle particolarmente solenne, non ha cancellato l'errore commesso con il processo, ma penso voglia indicare un rinnovato interesse della Chiesa per la scienza, reiterato da tutti i Papi del Novecento, a partire da Pio XI, con la rifondazione dell'Osservatorio astronomico vaticano e della Pontificia Accademia delle Scienze, sino alle recenti parole rivolte da Benedetto XVI a quanti, in questo 2009, anno dell' Astronomia, si preparavano a celebrare il IV centenario delle scoperte di Galilei: «Le leggi della natura [...] sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere del Signore».

Secondo alcuni il progresso della scienza porta a considerare la religione poco più di una superstizione, divenuta ormai irrilevante. Ma anche tra credenti e rappresentanti del clero si manifesta talvolta il timore che la scienza possa minare la fede in una realtà trascendente. Sintomo di questo timore è un certo imbarazzo ad accettare quello che la scienza ci sta rivelando sulla struttura e la storia del mondo, una resistenza ad accettare il grande affresco che di questa struttura e storia la scienza sta componendo.

Del possibile contrasto scienza-fede troviamo già tracce nel mondo antico. Apprendiamo ad esempio da Plutarco (nel dialogo La faccia della Luna) che lo stoico Cleante accusò Aristarco di Samo {circa 310-230 a.C.) di empietà per aver proposto il sistema eliocentrico, secondo cui la Terra gira intorno al Sole e ruota su se stessa, sistema ripreso e sviluppato quasi duemila anni dopo da Copernico.

Il problema era sentito nei primi secoli del cristianesimo, quando alcune acquisizioni della scienza greca, ad esempio sulla forma sferica della Terra, sembravano in contrasto con il racconto della Genesi. Una chiara messa in guardia contro possibili resistenze verso i risultati scientifici si trova in vari passi del Genesis ad Literam di sant' Agostino. Vi leggiamo tra l'altro: «Accade infatti assai spesso che, riguardo alla terra, al cielo, agli altri elementi di questo mondo, al moto e alla rivoluzione [...] degli astri, intorno [...] alla natura degli animali, [...] anche un pagano abbia tali conoscenze da sostenerle con ragionamenti indiscutibili e in base a esperienza personale» (Libro I, 19.39).

La scienza era allora appannaggio della cultura pagana; nel leggere questo passo oggi sostituirei "pagano" con "scienziato". Agostino torna sull'argomento nel Libro Il: «Poiché sta scritto nei Salmi: [Dio] ha stabilito la terra sulle acque, nessuno di noi pensi di basarsi su questo testo delle Scritture per combattere coloro che ragionano sul peso degli elementi. Quei tali [...] più facilmente si prenderanno gioco dei Libri santi anziché respingere ciò che hanno compreso con sicure dimostrazioni o hanno conosciuto per via d'esperienze evidenti» (Libro Il, 1.4).

Ho messo in corsivo alcune espressioni di sapore nettamente galileiano. n pensiero di Agostino sul rapporto tra la Scrittura e i ritrovati della scienza è raccolto in questa celebre frase: «Lo Spirito di Dio [...] non ha voluto insegnare agli uomini queste cognizioni per nulla utili alla salvezza dell'anima» (Libro Il, 9.20), una frase ripresa da Galileo, nella lettera alla Principessa Cristina «<l'intenzione dello Spirito Santo essere d'insegnarci come si vada in cielo, e non come vada il cielo»), nel tentativo, come sappiamo fallito, di difendere le sue idee copernicane.

Il caso Galilei e la condanna del sistema copernicano sono la logica conseguenza della tragica fine di Giordano Bruno. Nella pagina web che l'Archivio segreto vaticano dedica a Giordano Bruno possiamo leggere: «In quelle stesse stanze ove veniva interrogato Giordano Bruno, per questi medesimi cruciali problemi del rapporto fra scienza e fede, agli albori della nascente astronomia e sul crepuscolo della decadente filosofia aristotelica, sedici anni dopo sarebbe stato convocato dal cardinale Bellarmino, che ora contestava al Bruno le tesi eretiche, Galileo Galilei, soggetto anch'egli a un celebre processo inquisitoriale che per fortuna, almeno nel suo caso, si concluse con una semplice abiura».

Le teorie di Bruno andavano ben oltre quelle di Copernico, che Bruno considerava corrette ma incomplete, per «quel suo più matematico che natural discorso», come leggiamo nella Cena delle Ceneri.

Bruno aveva ragione: le stelle sono Soli, e molte sono come il nostro Sole dotate di sistemi planetari. Negli ultimi anni sono stati scoperti moltissimi pianeti extrasolari (333 alla vigilia del Natale 2008). Molti di questi hanno masse simili a quella di Giove (trecento volte la massa della Terra), ma pianeti più simili alla Terra potranno essere identificati con nuove tecniche oggi allo studio.

Il metodo scientifico si basa sul binomio teoria-esperienza, ma teoria ed esperienza sono spesso separate da tempi molto lunghi, talvolta secoli. Quindi è necessario dare spazio alla libera discussione di ipotesi nuove, che permettono i grandi balzi in avanti delle conoscenze, anche quando esse non trovano immediatamente un completo sostegno nei dati osservativi. Non possiamo trascurare l'importanza della visione scientifica, che trae anzitutto forza dall'eleganza e coerenza interna delle nuove idee. La negazione di questa visione è quello che possiamo rimproverare al cardinale Bellarmino, che nella sua lettera a Foscarini scriveva: «Quando ci fusse vera dimostrazione che [...] la terra circonda il sole, allora bisognerà [...] esplicare le Scritture che paiono contrarie [.. .]. Ma io non crederò che ci sia tale dimostrazione, fin che mi sia mostrata».

A un livello superficiale Bellarmino aveva ragione, ma la proibizione del sistema copernicano fu emessa nel 1616 proprio nel momento in cui Galilei, con i satelliti di Giove, le montagne sulla Luna, le macchie solari e le fasi di Venere, stava trovandone le prime prove, certo più suggestive che definitive. Prove dirette arrivarono molto più tardi.  Il moto della Terra intorno al Sole fu verificato solamente nel 1725 da James Bradley, con l'osservazione dell'aberrazione stellare, un piccolo spostamento della posizione apparente delle stelle dovuto al moto della Terra. La prova cruciale della rotazione della Terra fu ottenuta con il pendolo di Foucault nel 1858. Se la proibizione all'insegnamento della teoria copernicana avesse avuto successo, nessuno sarebbe stato spinto a cercarne la prova. Bellarmino non aveva capito che le scoperte di Galilei aprivano una fase interamente nuova nello studio dei cieli -si passava da un'astronomia geometrica, quella di Tolomeo, e in fondo anche quella di Copernico, a un'astronomia fisica, peraltro profeticamente presagita da Giordano Bruno.

Il rapporto tra scienza e fede deve essere reciprocamente rispettoso, ma non è bene fare confusione tra i due campi. Sarebbe inopportuno basare la teologia sui risultati della scienza. La descrizione del mondo che la scienza dà è in ogni dato momento la migliore disponibile, ma essa cambia inesorabilmente con l'avanzare della ricerca; la conoscenza scientifica della natura non è né sarà mai completa. li caso Galilei nasce dall'aver inopportunamente attribuito un significato teologico alla centralità e fissità della Terra, che, sia pure con alcune eccezioni, era generalmente accettata dalla scienza antica.

È altrettanto inopportuno pensare che la ricerca scientifica possa trovare una base in suggestioni teologiche, o teologiche in senso lato. La prefazione di un testo russo sulla teoria dei campi quantistici si dilungava sul ruolo di Stalin come sicura guida per la ricerca scientifica; l'ho cercato recentemente nella biblioteca del dipartimento di Fisica, ma una mano compassionevole l'aveva fatto sparire. Vorrei a questo proposito ricordare la famosa risposta data a Napoleone da Laplace, il fisico e matematico francese che portò a perfezione le teorie di Newton. Napoleone aveva chiesto: «In questo grande trattato sul sistema dell'universo non ha mai citato il suo Creatore», e Laplace rispose: «Non avevo bisogno di quella ipotesi». La risposta può apparire scioccante, ma era giusta. La ricerca scientifica deve seguire la sua logica, basata, come ci ha insegnato Galilei -ma prima di lui Agostino -, su sicure dimostrazioni ed esperienze evidenti.

Al fondo delle tensioni tra scienza e fede c'è la resistenza di fronte a ipotesi o teorie scientifiche che appaiono imbarazzanti. Queste ipotesi non devono essere prematuramente accettate dalla teologia, ma l'imbarazzo deve essere superato. Sta agli scienziati analizzare le teorie, cercare prove o contraddizioni, accettarle o rifiutarle. Mathemata mathematicis scribuntur, così Copernico esprime questo concetto nella dedica del De revolutionibus a Paolo 111. Non voglio discutere i doveri dei teologi, o suggerire possibili soluzioni all'imbarazzo; cadrei altrimenti nell'errore di Galileo, che tentò di trovare un accordo tra la Scrittura e Copernico.

Le ragioni di imbarazzo oggi non mancano. Cominciando dal mio campo, la fisica, abbiamo i misteri della meccanica quantistica, che in molti casi non dà una previsione univoca sullo sviluppo futuro di una data situazione. Ad esempio una reazione chimica potrebbe portare a due risultati differenti, A e B. L'interpretazione più coerente della teoria quantistica sembra ripugnante: non viene scelto A o B, ma A e B coesistono, e il mondo si dirama in due storie alternative. In una delle due storie la reazione ha portato al risultato A, nell'altra al risultato B. Sembra di entrare nella fantascienza: con alcune di queste diramazioni potremmo avere, accanto al nostro, universi con una storia molto differente, ad esempio uno in cui Rider non è mai nato.

La teoria dei "molti universi" appare anche da una direzione totalmente differente, quella della cosmologia. L'universo che conosciamo ha avuto origine nel Big Bang, la grande esplosione di circa quattordici miliardi di anni fa. Ci si pone ora il problema: da cosa ha origine il Big Bang? Secondo alcune teorie il nostro universo è emerso da un'entità primordiale in cui un numero inimmaginabile di Big Bang hanno portato alla nascita di altrettanti universi, anche con caratteristiche fisiche radicalmente differenti dal nostro. Non possiamo ancora dire sé queste idee di multiversi, sia quantistici sia cosmologici, rimarranno vitali tra dieci o venti anni, ma certamente non lo possiamo escludere.

Gli imbarazzi all'ordine del giorno riguardano però l'origine e l'evoluzione della materia vivente, un tema che la Pontificia Accademia delle Scienze ha trattato nella sua riunione plenaria del 1996, e in quella recentissima del 2008. Le teorie evolutive non avevano, al tempo di Darwin, una base concettuale che ne spiegasse in dettaglio il funzionamento. Le scoperte sopravvenute nella seconda metà del Novecento, che hanno chiarito le basi molecolari della materia vivente, hanno completamente cambiato la situazione. Nel 1996, ricevendo gli accademici, Giovanni Paolo II affermò: «New knowledge has led to the recognition of more than an hypothesis in the theory of evolution».

L'imbarazzo persiste, rappresentato nell'ala estrema dal movimento del "disegno intelligente", che pretenderebbe di trovare una dimostrazione "scientifica" dell'intervento divino in alcune fasi dell'evoluzione biologica. Per la scienza non esiste un segreto della vita, nel senso originario del termine "segreto", verità nascosta e inavvicinabile. Questo non significa che tutto sia chiaro, ma che non esistono barriere di principio a una conoscenza sempre più approfondita della materia vivente in tutte le sue manifestazioni. Il lavoro di avvicinamento alla conoscenza, in questo come in altri casi, è il ruolo principale della scienza.

Nicola Cabibbo

 

 

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009