Vincenzo Noto

 

 

LAMPEDUSA 24 SETTEMBRE 2011

 

Torno adesso da Lampedusa e mi porto nel cuore una strana tristezza.

Dopo poche ore dalla rivolta, le cui immagini cariche di rabbia e violenza sono ancora vive nella memoria umana e, ahimè, in quella ancor più impietosa dei media, sono arrivato a Lampedusa. Quelli che dovevano essere giorni di gioia e preghiera, in occasione dei festeggiamenti della Vergine di Porto Salvo, patrona dell’isola, si erano appena trasformati in giorni di inquietudine generale.

Portavo con me Mons. Maroun Lahham, Arcivescovo di Tunisi, latore di un annuncio di Pace e riconciliazione con un popolo anch’esso confuso e alla ricerca di una serenità e di un benessere che oggi è difficile trovare nel Nord Africa. Tutto era pronto, ma allo stesso tempo rischiava di saltare: ci chiedevamo se in quel clima fosse opportuno “festeggiare”, valutando ragioni pastorali e di ordine pubblico.

Rientrato il rischio di ulteriori manifestazioni violente per l’immediato trasferimento dei giovani tunisini, con l’arrivo del nostro Arcivescovo, Mons. Francesco Montenegro, si è deciso che i festeggiamenti dovessero aver luogo. Non è stata una decisione facile, né immediata.

Da un lato si riteneva che la comunità non fosse nello stato d’animo giusto per vivere quel momento di festa religiosa, dall’altro si riteneva ingiusto far ricadere sull’intera comunità la colpa di un gruppo di facinorosi esasperati e intolleranti, privandola di una festa che rappresenta il centro della vita della comunità religiosa e civile.

La Vergine di Porto Salvo avrebbe potuto riconciliare con sé e con il mondo il popolo lampedusano, aiutandolo a reinterpretare quanto accaduto, a riconoscere le proprie colpe e confermarlo in quello spirito di coraggiosa accoglienza e generosa condivisione che lo ha contraddistinto fino a quel momento.

Così è stato, infatti. La presenza di Mons. Lahham, che ha ringraziato Lampedusa e Linosa per l’accoglienza data alle migliaia di giovani tunisini arrivati quest’anno ed ha presentato le ragioni e le speranze che spingono tanti giovani a lasciare la propria terra, e le parole di Mons. Montenegro, che ha richiamato alla coerenza tra quanto celebrato e la vita vissuta, hanno restituito a Lampedusa quella dimensione di fraterna accoglienza e soprattutto la consapevolezza di non aver perso la stima e la riconoscenza meritata in questi ultimi mesi.

Le cicatrici di questa esperienza, però, rimangono; soprattutto in quanti maggiormente si sono prodigati nell’accoglienza; soprattutto in quanti, in tutti questi mesi, non hanno mai cessato di credere nel fatto che vivere a Lampedusa è una vera e propria vocazione all’accoglienza e alla testimonianza della fraternità evangelica. Loro, in quelle ore di violenza e scontri, hanno sperimentato l’impossibilità di intervenire e la frustrazione di essere testimoni inermi di una violenza senza ragione. Poveri contro poveri, paure contro paure: pietre e bastoni su giovani e isolani impauriti, ciascuno a modo suo. Da un lato i tunisini, esasperati da una detenzione lunga e insostenibile e solo allora consapevoli di un rimpatrio insindacabile; dall’altro i lampedusani, esasperati da mesi di emergenza, dalla paura di un inverno reso più duro dal fallimento della stagione turistica, dal senso di insicurezza per le loro famiglie (loro che erano abituati a lasciare auto e case aperte, con le chiavi appese). Poi il precipitare degli eventi, la protesta per le strade, il sit-in al distributore di benzina, le bombole del gas, la minaccia di far esplodere tutto … la polizia, l’agitazione, alcuni (pochissimi) isolani facinorosi già noti per aver contestato l’accoglienza manifestata da febbraio dai concittadini …

Purtroppo, però, come si sa, fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Fa più notizia l’esasperata violenza di pochi rispetto alla cristiana accoglienza di tanti. Questo è quello che rammarica. Mentre alcuni giornalisti si chiedono dove sia finito il senso di accoglienza dei Lampedusani, loro sanno che dovranno rassegnarsi a portarsi dietro un’onta che non meritano.

Il mio augurio è che le immagini di questi ultimi giorni non abbiano il sopravvento e che l’Italia che riflette non cada nel tranello di chi intende ancora una volta utilizzare Lampedusa per fare notizia e, chissà, giustificare politiche di intolleranza e di chiusura verso popoli sulle spalle dei quali abbiamo costruito la nostra ricchezza (che in questi mesi rischia di manifestarsi in tutta la sua vacuità) e che oggi chiedono giustizia e libertà.

Ai Lampedusani io confermo oggi il mio Grazie per la dignità con cui stanno portando anche questa croce; per l’umiltà con cui stanno subendo la mortificazione derivante dal sentirsi dichiarare “non accoglienti” e dal veder cancellare mesi di sacrifici e amore donato gratuitamente.  A loro dico di non scoraggiarsi, ma di continuare a dare il meglio di sé, con quella semplicità e quella spontaneità che li caratterizza da sempre e li rende un esempio per l’intera Arcidiocesi di Agrigento.

Valerio Landri

 

 

 

 

 

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