Vincenzo Noto |
Mons. Salvatore Di Cristina Arcivescovo – Abate di Monreale
Lettera ai Presbiteri
Miei cari confratelli Presbiteri,
non potevo, nonostante i tanti doveri di quest’anno pastorale, tanto particolare, sottrarmi al bisogno di indirizzarvi questa mia lettera. Come ben sapete, l’anno pastorale in corso ci vede impegnati a cogliere e secondare suggestioni che provengono da diverse e intense occasioni favorevoli per la nostra vita personale e per il nostro ministero di pastori. Tra esse la principale è senza dubbio quella offertaci dall’anno sacerdotale indetto dal Santo Padre in occasione del centocinquantesimo anniversario della beata morte del santo Curato d’Ars. Stiamo inoltre riflettendo – si tratta al momento solo di questo – sulla nostra prassi sacramentaria, volendo che dalla nostra riflessione discendano al più presto importanti decisioni per la vita cristiana della nostra diocesi. E c’è infine – per me soprattutto – l’occasione del mio prossimo giubileo sacerdotale, che la provvidenza ha voluto coincidesse con l’anno sacerdotale. Anche questa coincidenza del mio giubileo mi ha motivato nella decisione di scrivervi. Come era naturale che avvenisse, nel corso di quest’anno ho avuto modo di riandare ai miei cinquant’anni di servizio al Signore e alla santa Chiesa nel ministero sacerdotale, quarant’anni e più dei quali vissuti da presbitero. Non ho potuto fare a meno di pensare al vincolo di grazia che mi lega con tutti voi e alla nostra ineguagliabile esperienza di essere preti. Di quanta grazia di Dio siamo stati economi, e con quale responsabilità per la nostra stessa salvezza! Di tutto ci sentiamo debitori verso la Trinità santissima, mentre imploriamo che la nostra vita sacerdotale, divenuta in qualche modo eucaristia nelle nostre mani, divenga essa stessa ogni giorno di più, dinanzi a Cristo e alla sua Chiesa, espressione tangibile del nostro grazie. Miei cari amici, lasciate che vi dica la consolazione che io provo, scrivendovi, di potere coinvolgere tutti voi nella mia memoria grata. Certo, nel rimarcare la specificità sacra del vincolo che ci lega, non ho assolutamente l’intenzione di oscurare il vincolo altrettanto sacro del battesimo che tutti ci unisce, laici e chierici, in una stessa famiglia di fratelli. Al contrario semmai, sono convinto che riflettere sulla nostra comunione presbiterale e riscoprire che essa è unicamente voluta da Dio per essere dono alla sua Chiesa non potrà che conferire maggiore motivazione alla mia e vostra gioia per il vincolo sacro che specificamente ci lega.
1. Collocati nell’ordine dei presbiteri dall’amore condiscendente di Dio Per noi infatti, cari Confratelli, tutto ha avuto inizio nell’istante veramente divino nel quale, per l’imposizione delle mani dei nostri rispettivi vescovi, siamo stati fatti sacerdoti, “ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1). Allora fummo ordinati presbiteri: inseriti cioè sacramentalmente dentro un ordine, quello appunto dei presbiteri. Era il nome stesso del sacramento a sottolineare questa prima istanza della nostra sacramentale appartenenza a una comunione sacerdotale che da quarantacinque anni chiamiamo presbiterio. Sapevamo che ci aveva collocati in essa l’amore di Dio in Cristo. In un momento culturale come il nostro, caratterizzato dalla secolarizzazione e dalla fragilità del pensiero di fronte al trascendente e ai valori etici, un momento del quale anche noi, ministri del sacro, portiamo i segni e dal quale rischiamo di rimanere influenzati, tornare a scoprire, ogni giorno nuovamente, il nostro sacerdozio come storia d’amore dovrebbe essere come il nostro ricorrente bagno di rigenerazione. All’amore premuroso di Dio fa chiaramente appello la grande Preghiera di ordinazione del Pontificale Romano nel punto in cui, dopo avere lungamente richiamate le grandi tappe della storia di salvezza, lungo le quali attraverso le figure ministeriali dell’Antico Patto si è come dipanata la premurosa carità di Dio verso il popolo, il vescovo consacrante così conclude: Ora, o Signore, vieni in aiuto alla nostra debolezza e donaci questi collaboratori di cui abbiamo bisogno per l’esercizio del sacerdozio apostolico. Viene chiesto a Dio un gesto di condiscendenza amorosa. Ed è dall’amore condiscendente del nostro Dio che è nata la nostra vocazione e missione. Il nostro sacerdozio, vissuto secondo lo Spirito di Dio, non potrà non avere perciò i connotati di questo Amore che si è fatto in noi premurosa condiscendenza. L’agostiniana “carità pastorale”, restituita a nuovo smalto dal grande Vaticano II, non potrà mai essere per noi solo una bella categoria teologica: essa dovrà recare i contrassegni di un amore che sa essere condiscendente, la traduzione dell’amore stesso di Dio nella nostra esistenza sacerdotale per gli altri.
2. La nostra scuola di carità pastorale Questo stile ha una sua scuola normale, il presbiterio. In esso Gesù solo è autenticamente il Maestro: lo stesso Gesù che, istituendo i Dodici, volle per prima cosa chiamarli a sé, “perché stessero con lui” (Mc 3,14), e che a tutti noi lasciò il Cenacolo come icona per sempre eloquente del futuro presbiterio. Possiamo timidamente chiederci se il nostro presbiterio rispecchi appieno questa icona del Cristo maestro di carità con i suoi discepoli? Si poneva più o meno questa domanda il Servo di Dio Mons. Guglielmo Giaquinta, vescovo di Tivoli, in una pagina del suo libro intitolato, appunto, Il Cenacolo: «Del nuovo comandamento di Gesù, noi, soprattutto noi sacerdoti, che cosa ne abbiamo fatto? Dovremmo avere delle parrocchie “famiglie di amore”, espressione di tutta una diocesi vibrante di amore attorno al proprio vescovo. La realtà, in molti casi, è assai differente ed è difficile dire che ciò che veramente caratterizza tutta la Chiesa nel suo insieme sia l’amore come Gesù ci ha insegnato nel Cenacolo. Ma il fatto che sia così ci autorizza a non muoverci da tale stato? Non abbiamo il dovere di tornare al Cenacolo per interrogarci sul senso di amore da dare ai nostri rapporti sacerdotali e, più in generale, ecclesiali?». Non mi sento, cari fratelli, di attenuare il sapore, per quanto amaro, di questa citazione. Ci viene da un vescovo, originario della nostra terra, del quale il suo attuale successore, bene informato, ha potuto scrivere che era stato “sempre attento e zelante verso tutti, paterno, accogliente ad ogni ora del giorno verso i suoi presbiteri e i suoi fedeli, che ha vissuto il sacerdozio come amore di Gesù in maniera tutta sponsale”. Non ne attenuo l’amaro, perché è bene che anche noi ci interroghiamo sul “comandamento nuovo” che proprio nel Cenacolo Gesù ha consegnato ai suoi discepoli più vicini. Il nostro presbiterio ha bisogno di brillare, più di quanto lo stia già facendo, dell’amore che il nostro Maestro ci ha consegnato: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). L’amore tra noi presbiteri è l’ambiente sacro nel quale il sacramento dell’Ordine ci ha collocati, l’unico che saprà qualificarci al suo esterno come discepoli di Gesù, secondo la sua stessa parola: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (ib., 35). Ma dovrà trattarsi di amore effettivo, non solo formale o astratto: un amore fatto di stima, accoglienza, rispetto della persona e delle idee, interessamento ai bisogni, volontà umile e impegno disinteressato e sincero del bene dell’altro, tale che sappia non escludere all’occorrenza quell’atto di amore amicale, impegnativo e discreto, che è la correzione fraterna. Niente di più contrario sarà invece a questo amore, sigillato dal Sangue di Cristo, dello spirito di disunione, di quella reciproca diffusa disistima che rende pronti a raccogliere, con facile condiscendenza di giudizio, le maldicenze, le chiacchiere, i pettegolezzi che spiriti malevoli o frustrati non sanno trattenersi dal mettere in giro per i loro meschini interessi.
3. Ci è stato consegnato uno Spirito di santità La carità imparata alla scuola di Gesù nel Cenacolo ha bisogno di essere coltivata. Dovrà essere segno e nello stesso tempo anima genuina della nostra carità pastorale per quel “gregge di Dio, in mezzo al quale lo Spirito Santo ci ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (At 20,28). Ci sarà utile in questo senso riandare con la memoria alla nostra ordinazione presbiterale e tornare a meditare sulla sua preghiera più solenne: Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato. Rinnova in loro l’effusione del tuo Spirito di santità; adempiano fedelmente, o Signore, il ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto e con il loro esempio guidino tutti a un’integra condotta di vita. Nella grande Preghiera di ordinazione queste parole vengono indicate come formula specialmente consecratoria. Notiamo anzitutto come in essa la dignità del “presbiterato” sia posta in relazione strettissima con una nuova effusione dello Spirito di santità. Questa effusione a sua volta è pensata in posizione mediana tra la “dignità” presbiterale e l’“adempimento” dei doveri propri dell’ufficio sacerdotale. Colpisce ancora il fatto che in questa formula, mentre non si fa alcun accenno a poteri sacerdotali, si sottolinei invece la qualità spirituale che dovrà caratterizzare l’adempimento del servizio (“ministero”) sacerdotale. Questa qualità viene identificata genericamente come “fedeltà” e assegnata in particolare, come esemplarità di vita, al ministero della “guida”. Non c’è dubbio che proprio l’esigenza fortemente avvertita di questa qualità del nostro ministero ha fatto sì che la Preghiera di ordinazione assumesse a questo punto la sua forma di epiclesi dello Spirito di santità. Miei cari confratelli, non è per noi oltremodo significativa questa indicazione della lex orandi, che ci riguarda così personalmente e intimamente? Che cosa più della santità può qualificare il nostro ministero e promuoverne l’efficacia? Se la santità del ministro di Dio costituisce il naturale ben armonizzato contrappunto alla Parola che annuncia o come la cornice veramente degna dei sacramenti che amministra, come l’assenza di santità – peggio ancora, Dio non voglia, lo stato di peccato – non porrà lo stesso ministro nella condizione paradossale di un’angosciante stonatura rispetto alla prima e di una estraneità penosa rispetto ai secondi? Certo, l’efficacia della Parola di Dio e dei Sacramenti non dipende dalla santità del ministro. Lo sappiamo bene, ma guai a noi se dovessimo abusare di questo sovrano accorgimento della misericordiosa paternità di Dio verso i suoi figli. Guai, perché questa divina accortezza starebbe solo a significare, per quel che ci riguarda (e a nostra vergogna), la volontà di Dio di mettere in ogni caso al sicuro i suoi figli dalla nostra miseria. Se Egli infatti non avesse provveduto così, colui che per sua disgrazia avesse scelto di svolgere in stato di peccato il sacro ministero, o anche solo nella condizione di resa totale alla mediocrità, si troverebbe a piangere la parte terribile di chi ha osato vanificare il Sangue del Signore. Quanto più vicini può farci invece, cari confratelli, alla logica della paternità di Dio l’avere accolto e coltivato nelle nostre persone a Lui consacrate il dono inestimabile della Sua santità! Come dovrebbe la nostra vita sacerdotale echeggiare in ogni momento l’ardente preghiera di Cristo nel cenacolo: «Padre santo,… per loro io consacro me stesso: perché siano anch’essi consacrati nella verità».
4. Chiamati a essere degni cooperatori dell’ordine episcopale Dopo le parole della formula consecratoria la Preghiera di ordinazione così continua: Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del Vangelo mediante la loro predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini e raggiunga i confini della terra. Una parola dobbiamo dire anzitutto sull’oggetto principale di questa preghiera: la cooperazione dei presbiteri “all’ordine episcopale” , che si vuole “degna”. La proposizione che esprime questo oggetto regge anche logicamente il seguito del periodo, nel quale questa cooperazione degna viene messa in relazione con la predicazione del Vangelo ma anche con la sua fruttificazione nel cuore degli uomini. Possiamo intendere che tale cooperazione è pensata come strettamente funzionale all’annuncio della parola del Vangelo, ma anche nel senso che essa costituisce la condizione dentro la quale potrà e dovrà avvenire l’annuncio del Vangelo così da dare i suoi frutti, “con la grazia dello Spirito Santo”. Vedremo nel seguito della Preghiera di ordinazione che il campo di esercizio della cooperazione dei presbiteri con i vescovi non riguarda solamente l’annuncio del Vangelo ma che in pratica esso abbraccia tutto l’agire ministeriale dei presbiteri per il popolo cristiano e per il mondo intero. Ma è su questa indicazione dei presbiteri come “cooperatori dell’ordine episcopale” che dovremo fermarci ancora un poco, miei cari amici, per le importantissime ricadute che essa ha per il nostro Presbiterio. Diciamo intanto che questa idea della cooperazione riprende un tema che attraversa – anche mediante l’idea affine della “collaborazione” o dell’“aiuto” – tutta la Preghiera di ordinazione, compresi i richiami all’Antico Testamento che ne occupano la prima parte. Questo fatto ci aiuta a capire che, nella comprensione e nella intenzione della “Chiesa che prega”, l’essere i presbiteri collaboratori (o cooperatori) del vescovo (o dell’ordine episcopale) corrisponde a ciò che possiamo indicare come lo statuto ministeriale dei presbiteri in quanto tali. Questa è del resto la comprensione che troviamo espressa puntualmente in quasi tutti i luoghi del Concilio Vaticano II nei quali si viene a parlare del ministero dei presbiteri. Ed è anche la comprensione che appartiene alla tradizione della Chiesa.
5. Il Presbiterio come ministero collegiale Mi piace riportare a conferma di quanto appena affermato un passaggio della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa, che ci è particolarmente caro. «I presbiteri, premurosi collaboratori dell’ordine episcopale, suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono insieme col loro vescovo un unico presbiterio destinato a diversi uffici. In ogni singola assemblea locale di fedeli essi rendono in qualche modo presente il vescovo, col quale restano uniti con fiducia e magnanimità, e del quale assumono per la loro parte funzioni e responsabilità, che poi esercitano nella cura quotidiana» (LG 28). È interessante come in questo passaggio l’idea della cooperazione dei presbiteri sia stata posta in stretta connessione con la categoria, allora appena ripristinata, del “presbiterio”. I presbiteri “costituiscono”, veniva detto, “insieme con il loro vescovo un unico presbiterio”. La novità di questo modo di esprimersi fece a suo tempo grande impressione. In realtà si trattava non di vera novità ma, come sto finendo di dire, del ripristino di una figura ministeriale antica, di carattere collegiale, nella quale gli studiosi dell’antichità cristiana hanno da tempo ravvisato la culla storica del ministero dei presbiteri. Ciò, nel concreto della interpretazione pastorale dei nostri rispettivi ministeri, del mio come vescovo e del vostro come presbiteri, deve poter significare un mutamento della modalità del loro esercizio di fondamentale rilevanza: un mutamento sui cui tempi dobbiamo riconoscere di essere incredibilmente in ritardo. Meno di un anno dopo la costituzione Lumen gentium, il decreto conciliare Presbyterorum ordinis, dal quale molto è stato attinto per la precisazione dell’idea conciliare della cooperazione dei presbiteri con l’ordine episcopale, così si esprimeva: «Cristo, per mezzo degli stessi apostoli, rese partecipi della sua consacrazione e missione i loro successori, cioè i vescovi, il cui compito fu trasmesso in grado subordinato ai presbiteri, affinché questi, costituiti nell’ordine del presbiterato, fossero cooperatori dell’ordine episcopale per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo. La funzione dei presbiteri, in quanto strettamente congiunta all’ordine episcopale, partecipa dell’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo» (2)… «I vescovi siano pronti ad ascoltare il loro presbiterio, anzi, siano essi stessi a consultarlo e ad esaminare assieme i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi» (7). Secondo questi testi del Concilio Vaticano II, a loro volta interpretati alla luce dell’esperienza della chiesa dei Padri, il presbiterio non può più essere visto soltanto come il collettivo dei preti, per intenderci: il “clero” di una volta, quando questo non comprendeva ancora i diaconi (permanenti). Allora i preti partecipavano sì al governo pastorale della diocesi, ma solo nel senso che ne curavano ciascuno una porzione. Dopo il Concilio sarebbe dovuta maturare un’altra consapevolezza, che purtroppo fino ad ora ha tardato, come dicevo, a realizzarsi: quella di un presbiterio che è investito in quanto tale di una sorta di ministero in solidum a servizio della diocesi nel suo insieme. Presieduto dal vescovo e mai senza di esso, esso è chiamato a realizzarsi, oltre che come luogo di carità fraterna e di formazione permanente, come luogo di vera comunione nel senso etimologico della condivisione del munus suo proprio, che è appunto la cura pastorale della chiesa locale affidatagli dallo Spirito Santo. Di questa comunione il citato decreto Presbyterorum ordinis indicava come sua “manifestazione ottima” la concelebrazione eucaristica, che cominciava allora a fare le sue prime comparse.
6. Vantaggi di una visione riscoperta I vantaggi che da questa rinnovata visione del presbiterio possono derivare per la cura pastorale della chiesa locale sono evidenti. In positivo, diremo che al bene di cui la diocesi da sempre si avvale attraverso il ministero che i suoi presbiteri svolgono negli uffici assegnati loro personalmente si dovrà aggiungere quello che dovrebbe derivare dalla loro partecipazione più piena, effettiva ed affettiva perché più consapevolmente vissuta, al governo pastorale di tutta la diocesi. Senza dire che anche il ministero esercitato personalmente non potrà che beneficiare della maggiore ampiezza di afflato pastorale che l’agire collegiale per se stesso consente, oltre che dello stile di condivisione che esso stesso richiede. Un afflato e uno stile che – ne sono personalmente convinto – non mancheranno di arricchire sempre di più il senso della responsabilità del loro ministero di anziani nella comunità cristiana; una responsabilità che, congiunta alla grazia del ministero, saprà ancor più affinare in essi quella spirituale saggezza e cristiana prudenza che stanno a fondamento dell’autentico servizio pastorale. In negativo, apparirà sempre meno adeguato all’ideale lumeggiato nei documenti e nella lex orandi della Chiesa un esercizio del ministero presbiterale unicamente dedicato alla cura di una parrocchia o altro ufficio, con ministri del Signore esposti - in piena epoca della comunicazione - al rischio di visioni parziali e particolaristiche, sempre incombente su chi agisce in solitudine. Meno ancora potrà considerarsi accettabile la figura, un po’ romantica, del prete così detto “libero battitore”, che dovesse decidere di ritagliarsi un proprio spazio di azione (pastorale, caritativa, sociale, professionale…) né facilmente identificabile come ministero presbiterale né chiaramente indicativo di un’autentica ispirazione vocazionale. È ovvio che posizioni di questo genere non possano essere più considerate compatibili con il sentimento dell’appartenenza al presbiterio, inteso nella sua autenticità non puramente formale o giuridica. Un presbitero non può esimersi dal contribuire, personalmente e nei fatti, alla realizzazione della dimensione collegiale del suo presbiterio. Quando ciò dovesse verificarsi, o per disaffezione riconducibile a negligenza oppure, più gravemente, per propria non giustificabile decisione, io ritengo che ci troveremmo di fronte a un comportamento così evidentemente incongruo, da mettere in questione la legittimità stessa del ministero esercitato. E questo sia detto anche al di là dell’eventuale parvenza di personale devozione, perché vale sempre quanto affermato in un passaggio importante del Concilio: «La fedeltà a Cristo non può essere separata dalla fedeltà alla sua Chiesa. Per questo la carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre in stretta unione con i vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio» (PO 14).
7. I presbiteri sono la ricchezza del presbiterio Siamo dunque presbiteri nella Chiesa a partire dalla nostra appartenenza a un presbiterio, l’unico della nostra chiesa locale. Ad esso portiamo le ricchezze di grazia, di mente e di cuore, della buona o della cattiva salute, delle esperienze (molte o poche, tutte però sperabilmente ben tesaurizzate), della cultura e della saggezza (che è il buon sale di ogni cultura), ma anche e soprattutto della nostra quotidiana preghiera: di tutto il bene insomma che lo Spirito Santo ci ha concesso far fiorire e fruttificare dal sacramento con cui un giorno (per me oggi così lontano eppure così vivissimamente vicino) Egli stesso ci la legati a Cristo Gesù, sommo ed eterno Sacerdote. Ad esso – al nostro presbiterio – portiamo dunque noi stessi, ed esso pertanto di noi stessi si sostanzia. Che il presbiterio si riconfiguri sacramentalmente come ministero collegiale è una consolante apertura sul suo glorioso passato che lo Spirito Santo ha voluto ispirare alla Chiesa dei nostri giorni. Ciò naturalmente non significa che esso possa e debba configurarsi, nel suo insieme (come quasi certamente lo fu in passato, anche se per breve periodo di tempo), come una specie di senato in permanenza della chiesa locale. Sotto questo aspetto esso ha i suoi momenti di collegialità ministeriale vissuta nelle nostre assemblee e adunanze di clero (anche se queste vedono oggi, insieme con noi sacerdoti, i confratelli diaconi, sia pure con attitudini pastorali differenti) e soprattutto nel consiglio presbiterale, che il presbiterio rappresenta canonicamente. È in tali momenti che il presbiterio si avvale per l’insieme dei bisogni del nostro popolo delle risorse di esperienza, sapienza e prudenza di tutti quanti noi, come anche delle nostre diverse conoscenze della diocesi derivanti dai nostri punti di osservazione specifici. Ed è in questi stessi momenti che debbono maturare le decisioni più importanti per la vita della nostra chiesa locale.
8. “Sacerdoti dell’Evangelo di Dio” Ritorniamo ora alla invocazione della Preghiera di ordinazione da cui abbiamo preso le mosse per questa nostra riflessione sul presbiterio. Mi pare molto significativo che il primo campo di esercizio della cooperazione dei Presbiteri con l’ordine episcopale, oggetto di questa stessa invocazione, sia quello della predicazione del Vangelo. Generati dalla parola del Vangelo di Cristo, come ogni altro nostro fratello di fede, siamo divenuti ministri della Parola, “sacerdoti dell’Evangelo di Dio”, secondo la pregnante espressione di san Paolo, che in Rm 15,16, rivendica la grazia concessagli «di essere liturgo di Cristo Gesù per le genti, esercitando il sacerdozio dell’Evangelo di Dio, perché le genti divengano un’oblazione gradita, consacrata nello Spirito Santo». Dobbiamo al Concilio Vaticano II il pieno ritorno della nostra consapevolezza della centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e della conseguente posizione basilare che ne ha l’annuncio per il nostro ministero. Dal ministro della Parola di Dio si richiede infatti che egli per primo abbia familiarità con essa, che se ne avverta sempre nuovamente generato. Questo non può avvenire senza che noi presbiteri sentiamo la necessità, come cristiani e come uomini spirituali e pastori, di incontrarci con essa, di interrogarla e gustarla con studio assiduo e metodico, serio e gioioso insieme. Solo così potremo essere, come è dovere che siamo, predicatori e, prima ancora, testimoni della Parola. Su questo punto possiamo richiamare alla mente quanto ci ha scritto il Santo Padre Benedetto XVI nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale: «Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”. Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli». È chiaro che qui non si discorre solo di scienza biblica o di tecnica oratoria. Qui non è in gioco il possesso di una buona conoscenza della santa Scrittura, nella corretta oggettività contenutistica che abbiamo il diritto di pretendere da un biblista, e neppure soltanto di doti comunicative particolarmente studiate. Se dovessimo limitarci a consegnare così la Parola di Dio, non saremmo ancora dei testimoni; e non sapremmo raggiungere i cuori dei nostri fratelli. Si tratta di un patrimonio da comunicare che, come lo intende il Papa, è certamente “la Parola di Dio” accolta e studiata con riverenza e amore, ma è anche, e principalmente, l’impagabile esperienza del nostro contatto personale con il “Dio della Parola”. Solo in questo senso il patrimonio da comunicare sarà un patrimonio esistenzialmente assimilato, divenuto cioè ragione e stile della nostra vita. Un tale patrimonio, se non c’è non c’è modo né di inventarselo né di improvvisarlo: è da chiederlo come dono di conversione. La testimonianza infatti è lo specchio di una condizione esistenziale; e solo se questa condizione c’è, si potrà parlare, nel senso intravisto da san Paolo, di “sacerdozio del Vangelo”.
9. Uomini dai rapporti ricchi e maturi Parlando di testimonianza, siamo portati a fare un altro passo nella nostra riflessione. Essa infatti rimanda al sacerdote come uomo di relazione. Se è vero che, nel comunicare la Parola di Dio, ciò che fa di lui un testimone è la propria relazione personale con Dio, è altrettanto vero che l’efficacia del suo ministero dipende anche dalla sua capacità di entrare in relazione con gli uomini e le donne del suo tempo e del suo ambiente. Naturalmente dovremo evitare l’ingenuità di una visione schematizzata della nostra umanità. Potremmo infatti chiederci, con piena legittimità, se si possa dare una persona capace di relazionarsi in modo davvero umanamente ricco e maturo a Dio – “amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore”, dice la Scrittura, “con tutta la tua anima, con tutta la tua mente” (Mt 22,37) – e che non sia anche capace di rapporti umanamente ricchi e maturi con il prossimo. Ad ogni modo, vale sempre la pena esaminarci sulla nostra reale attitudine a entrare in relazione con i nostri fratelli. Oggi in particolare, l’esercizio del nostro ministero non è pensabile al di fuori di un contesto di relazioni “ricche e mature”. Le quali ovviamente, per essere tali in un sacerdote, non potranno mancare del valore aggiunto della fede e di una autentica attitudine pastorale, ambedue radicate nella preghiera. Il nostro punto di vista infatti dovrà sempre rimanere distinto e diverso da quello di chiunque dovesse trovarsi a interpretare il ministero presbiterale in chiave burocratica o manageriale.
10. Profeti del Nuovo Testamento Rapportata alla Parola del Vangelo, la testimonianza assume la dimensione della profezia. Una profezia che manifesti anzitutto l’entusiasmo per il Libro santo della Parola di Dio, come è dato intravedere in un celebre passaggio di un’omelia di Giovanni XXIII: «Se tutte le sollecitudini del ministero pastorale ci sono care e ne avvertiamo l’urgenza, soprattutto sentiamo di dover sollevare dappertutto e con continuità di azione l’entusiasmo per ogni manifestazione del Libro Divino, che è fatto per illuminare dall’infanzia alla più tarda età il cammino della vita» (Omelia tenuta nella Basilica Lateranense il 23 novembre 1958). Il contesto della citazione è dato da una bella immagine che, al dire di Papa Giovanni, avrebbe espresso la collocazione più significativa del sacerdote, quella che lo rappresenta “tra il Libro e il Calice”. Eravamo agl’inizi del pontificato di quel santo pontefice e nessuno aveva parlato ancora di un Concilio: egli invece aveva già chiara l’idea della priorità della catechesi biblica nella pastorale del sacerdote. Ma la dimensione profetica della testimonianza del sacerdote alla Parola di Dio ha anche altri campi da rischiarare. La profezia è coscienza critica; è presa di distanza da ogni distorsione o riduzione dei veri interessi dell’uomo, che sono anche quelli di cui Dio si fa vindice; è difesa dei poveri, dei deboli e degli oppressi. La profezia non può, in modo assoluto, ammettere il compromesso con la sopraffazione, con l’intrigo, con l’intrallazzo, con l’illegalità e con qualsiasi altra forma, per quanto subdola, di subcultura mafiosa. Per questo è indispensabile che ognuno di voi, cari amici presbiteri, soprattutto in questi nostri territori che col tanfo di quella subcultura non hanno ancora finito, purtroppo, di fare i conti, vegli su se stesso e su tutto il gregge (cf. At 20,28), come sentinella, memore sempre della similitudine di Gesù con la quale un giorno egli parlò ai suoi della prudenza dei serpenti e della semplicità delle colombe (cf. Mt 10,16). Siamo chiamati a incarnare la profezia del Nuovo Testamento, dei tempi nuovi e della terra nuova, noi in particolare, presbiteri della Chiesa latina, storicamente scelti per il ministero anche in considerazione di una condizione di vita celibataria affidataci dallo Spirito di Dio come suo carisma e consegna. Il celibato infatti – lo ha ricordato ancora recentemente il Santo Padre Benedetto XVI – «è autentica profezia del Regno» (Discorso ai sacerdoti partecipanti al Convegno promosso dalla Congregazione per il Clero, 12 marzo 2010). E lo è per la misura radicale dell’impegno che esso comporta di tutta quanta la nostra persona dedicata all’annuncio della verità assoluta del “Regno di Dio che viene”. È scommettendo su tale verità che noi accogliamo come grazia il nostro celibato e, accogliendolo e vivendolo fedelmente, facciamo della nostra stessa vita una testimonianza profetica. Citando nuovamente il Papa dal medesimo Discorso, diremo pertanto che in esso, nel celibato, si esprime il «segno della nostra consacrazione con cuore indiviso al Signore e alle “cose del Signore” (1Cor 7,32) e l’espressione del dono di noi stessi a Dio e agli altri». Questo nostro “essere di Lui”, che il sacramento dell’Ordine ha sigillato con la potenza dello Spirito e il carattere pubblico del nostro celibato rende a suo modo visibile, sta alla base dell’edificio della nostra spiritualità e ne decide lo stile. Esso, cito ancora il Papa, «deve diventare riconoscibile davanti a tutti, attraverso una limpida testimonianza».
11. Un ministero pastorale a dimensione sacramentale Procediamo nella nostra riflessione sulla Preghiera con cui fummo ordinati sacerdoti del Signore. Siano insieme con noi fedeli dispensatori dei tuoi misteri, perché il tuo popolo sia rinnovato con il lavacro di rigenerazione e nutrito alla mensa del tuo altare; siano riconciliati i peccatori e i malati ricevano sollievo. Questa impetrazione riguarda da vicino l’amministrazione dei sacramenti. Vi sono elencati ovviamente solo quelli celebrati di norma dal presbitero: il Battesimo, l’Eucaristia, la Riconciliazione dei penitenti, l’Unzione dei malati. Si prega in essa che i presbiteri ne siano “fedeli dispensatori”, mentre viene ancora una volta esplicitata la condizione che l’esercizio di questo ministero veda il presbitero come collaboratore del vescovo. Questa stessa condizione viene qui espressa mediante la locuzione “insieme con noi”, che appare particolarmente coinvolgente. Certamente essa sta a significare l’unità profonda di quella dimensione più propriamente sacerdotale che lega i presbiteri con il loro vescovo e mette in gioco in forma più diretta l’amministrazione dei sacramenti. Mi piace sottolineare inoltre – e avrei potuto anche farlo a proposito della supplica precedente – la finalità più vera di questa preghiera. In effetti essa, mentre riguarda direttamente gli ordinandi, in realtà ha di mira il progresso santo del popolo di Dio. Vi potremmo cioè intravedere un nuovo caso di traduzione dell’antico adagio sacramenta sunt propter homines. Come sappiamo, in san Tommaso d’Aquino – che lo introdusse al suo tempo – questo celebre adagio voleva da un lato affermare il fine proprio dei sacramenti, voluti da Dio per la salvezza degli uomini, e dall’altro lato mettere in risalto la loro provvidenziale corrispondenza alla natura e alla condizione storica degli uomini. Viene insegnato cioè che i sacramenti sono a vantaggio degli uomini e, nello stesso tempo, sono proporzionati agli uomini. Un detto dunque, questo che stiamo ricordando, che contrariamente al significato che gli viene volgarmente attribuito, non stabilisce affatto una sorta di diritto assoluto dell’uomo a ricevere i sacramenti a semplice sua richiesta, sebbene rimanga sempre incombente su noi pastori il dovere di fare tutto quanto sta a noi perché coloro che ce li chiedono pervengano alla retta conoscenza e al retto uso di essi.
12. La nostra preghiera Concludiamo ora la nostra riflessione sulla Preghiera di ordinazione tratta dal Pontificale Romano. Siano uniti a noi, Signore, nell’implorare la tua misericordia per il popolo a loro affidato e per il mondo intero. Così la moltitudine delle genti, riunita in Cristo, diventi il tuo unico popolo che avrà compimento nel tuo regno. Quest’ultima supplica considera la nostra vita di preghiera, ancora una volta in una invocazione che ci accomuna, vescovi e presbiteri, qui nell’uso specifico di una preghiera a forte valenza ministeriale. Proprio questa valenza ministeriale della preghiera ha voluto sottolineare ancora recentemente il Santo Padre Benedetto XVI, riferendosi agli ordinandi presbiteri nell’omelia della Domenica del Buon Pastore dello scorso anno. Osservava egli che proprio perché ministeriale la preghiera dei presbiteri non può non collegarsi alla preghiera di Gesù per i suoi. «Vorrei toccare un punto che mi sta particolarmente a cuore: la preghiera e il suo legame con il servizio… Essere ordinati sacerdoti significa entrare in modo sacramentale ed esistenziale nella preghiera di Cristo per i “suoi”. Da qui deriva per noi presbiteri una particolare vocazione alla preghiera, in senso fortemente cristocentrico: siamo chiamati, cioè, a “rimanere” in Cristo – come ama ripetere l’evangelista Giovanni –, e questo rimanere in Cristo si realizza particolarmente nella preghiera. Il nostro ministero è totalmente legato a questo “rimanere” che equivale a pregare, e deriva da esso la sua efficacia». Ritengo le espressioni da me sottolineate in questo testo veramente decisive per l’orientamento specifico della nostra spiritualità sacerdotale. Noi, che in Gesù Cristo abbiamo da Dio ottenuto misericordia (cf. Rm 11,30; 1Cor 7,25; 1Tm 1,16), per un’imperscrutabile dilatazione di questa stessa sua grazia, siamo stati fatti a nostra volta ministri di misericordia per i nostri fratelli. Proprio qui troviamo perciò la caratteristica presbiterale della nostra preghiera, dal cui esercizio, per quel che ci riguarda come oranti, verranno ogni giorno di più alimentati e la nostra apertura di cuore ai fratelli e il respiro universale del nostro ministero. Solo da essa potremo attenderci che la nostra anima pastorale pervenga a maturazione autentica, molto più di quanto non potremo attenderci da aggiornamenti pur necessari e da conoscenze di nuovi metodi di organizzazione pastorale. Naturalmente questa dimensione ministeriale della preghiera interessa tanto la preghiera liturgica, in vista della quale siamo principalmente sacerdoti ministri, quanto la nostra preghiera personale. Il rapporto anzi tra queste due dimensioni della preghiera, voi lo sapete, è, soprattutto per noi, davvero inscindibile. Se è vero infatti che la nostra preghiera personale si nutre della preghiera liturgica, è altrettanto vero che solo la nostra preghiera personale potrà portare alla preghiera liturgica, da noi presieduta, il profumo delle nostre anime sacerdotali. Essa è, per altro verso, reclamata per noi con tanto maggiore impellenza quanto più alto è il rischio che lo smalto della nostra presidenza liturgica venga usurato dal tempo e dall’abitudine. A riguardo ci è nota la convinzione generalizzata che ci vuole “uomini di preghiera”. Ora, se ci commuove la testimonianza di Tommaso da Celano su san Francesco – che non era un sacerdote –, secondo cui egli «non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente» (Vita seconda c. LXI, 95), non possiamo fare a meno di considerare, cari confratelli, che una tale testimonianza dovrebbe valere anche per ciascuno di noi addirittura a doppio titolo. Uomini di preghiera – uomini fatti preghiera –, dall’intimo della nostra esperienza della Trinità santissima dovremmo, come ci dipinge il Papa, celebrare “i sacramenti come atti di preghiera e di incontro con il Signore” (Discorso del 22.2.07); incontrare i fratelli con la carità stessa con cui ci sentiamo accolti da Dio nostro Padre; trasformare ogni atto giornaliero – i colloqui personali, gli incontri di gruppo e quelli organizzativi… – in atti spirituali, vissuti in comunione incessante con Cristo nostro Maestro di preghiera. Questa preghiera autentica – e non già certamente quella che meglio definiremo sbrigativo assolvimento di doverose pratiche di pietà –, questa preghiera invece, vissuta come un incessante “rimanere in Cristo”, con delicato affetto e abbandono fiducioso al suo Cuore, risulterà humus sicuro e fecondo del progressivo affinamento delle virtù proprie della nostra condizione vocazionale. Solo questa preghiera potrà impedire infatti allo spirito del mondo di insediarsi nel nostro cuore e compromettere il nostro stile di vita. Da essa solo attingeremo energia sempre nuova da opporre agli ostacoli che la superbia, l’orgoglio egocentrico e perfino un certo malinteso sentimento della nostra dignità – troppo spesso rivendicata a sproposito – cercano di opporre alla radicazione feconda dei doni dello Spirito Santo in noi. Essa darà smalto di verità alla castità, senza la quale il nostro celibato non sarà mai vissuto per quello che è: dono accolto con amore, con umiltà e con gratitudine; alla povertà, nella quale giustamente la nostra gente vede la cartina di tornasole per giudicare dell’onestà del nostro ministero, e che sola potrà rendere libero il nostro cuore per un servizio d’amore lungo quanto la vita; all’obbedienza a Dio, infine, e alla sua Chiesa, che, riprendendo dall’esempio di Cristo la propria seria consistenza, è l’unica che possa conferirci il diritto di far parte dei discepoli per cui Egli ha pregato. Sarà insomma la nostra preghiera a conservare intatti in noi il sentimento e la ricerca fruttuosa dell’umile nostra vera evangelica dignità.
Al termine di questa piccola fatica, portata con amore fraterno per Voi e per quello di cui, insieme con me, siete portatori e ministri in questa santa Chiesa di Monreale, mi è di grande conforto potervi affidare tutti, in atteggiamento di filiale preghiera, alla Beata Vergine Maria, Madre di Cristo sommo ed eterno Sacerdote e Madre nostra amatissima. Nel suo materno affetto per Voi, carissimi, e per questa chiesa, voglia Ella aprire nei vostri cuori solchi di accoglienza generosamente docili ai suggerimenti di questa mia lettera, al di là della sua povertà. Di tutto cuore vi auguro che all’impiego sacro di fatica che caratterizza il vostro ministero particolarmente in questa Settimana veramente grande e santa corrispondano i frutti abbondanti e duraturi che sono oggetto dei miei e vostri desideri e preghiere. Tra questi non posso non comprendere il frutto di uno slancio rinnovato nella mia e vostra adesione a Cristo, nostro Maestro e Signore: Signore del gregge a noi affidato e Pastore di noi pastori. A Lui sia onore e lode, insieme al Padre suo e allo Spirito Santo.
Monreale, 1 aprile 2010, Giovedì Santo
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