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Denunciare, formare, lottare per la giustizia

 

Stiamo commemorando da qualche settimana le vittime delle due stragi mafiose del 1992. Undici persone che stavano svolgendo, saggiamente e con competenza, i loro compiti a servizio dello Stato e quindi della libertà e della sicurezza di tutti noi. Uomini e donne che sono stati strappati con barbara violenza all’affetto dei loro familiari. Ieri come oggi riaffermare chiaramente l’incompatibilità tra vita cristiana e appartenenza alla mafia non è mai superfluo. Il compianto mons. Cataldo Naro, arcivescovo di Monreale, insegnava che "nelle nostre parrocchie deve essere detto e ridetto che non può ritenersi veramente appartenente alla Chiesa chi fa parte di una cosca, cioè di un'organizzazione criminale che, del tutto normalmente, per raggiungere i suoi scopi fa uso della violenza e pratica l'omicidio. C'è un'incompatibilità evidente tra l'appartenenza alla mafia e la professione e la pratica del cristianesimo. È un'incompatibilità evidente che, però, va detta, spiegata, veicolata, trasmessa, specialmente alle nuove generazioni. E la ferma, diffusa e costante affermazione di tale incompatibilità non va contraddetta con atteggiamenti di "rispetto" e legami di un qualche interesse verso gli uomini delle cosche, almeno quelli notoriamente tali, da parte dei sacerdoti e in particolare dei parroci. Su questo punto bisogna essere molto coerenti. Ne va della serietà, della "verità" e dell'efficacia dell'azione pastorale della Chiesa. Il modello resta la dedizione pastorale e la testimonianza sacerdotale di don Pino Puglisi, tanto attento all'educazione dei ragazzi quanto chiaro nella sua posizione verso gli uomini delle cosche". Parole che illuminano ancora - in particolare noi credenti - sulla pericolosità socio-culturale del fenomeno mafioso, «la configurazione più drammatica del "male" e del "peccato"» (così lo definiscono i vescovi italiani nel loro documento "Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno"). Ma certamente - come ormai è evidente - non è più sufficiente come Chiesa denunciare il fenomeno mafioso come anticristiano, occorre invece agire con tenacia e positivamente per la formazione delle coscienze - compito specifico della Chiesa stessa - compito complesso che richiede tempi lunghi, perché la mafia ha radici profonde nella mentalità e nella vita dei nostri territori. È fondamentale l'indignazione verso il male in ogni sua forma, per sconfiggerlo dovunque sia possibile. Da parte del credente è importante pagare di persona e mettere il bene dove c'è il male. Non possiamo limitarci come cristiani alla condanna di situazioni malavitose e di illegalità, ma dobbiamo porre in essere gesti di speranza e di rinnovamento. I prossimi tre incontri che si svolgeranno a Mazara del Vallo con testimoni del nostro tempo saranno una occasione per aiutarci a non percorrere «una strada di morte» - così Benedetto XVI, nel suo primo viaggio in Sicilia, ha definito la mafia - , ma impegnarci nella promozione della giustizia e delle fasce più deboli della società. Il 15 giugno ascolteremo il dott. Calogero Germanà, il 22 giugno il dott. Gioacchino Natoli, il 28 giugno don Giacomo Panizza.

 

 

 

 

 

 

 

progetto: CytyMy