Vincenzo Noto

 

      

PALERMO OSPITALE CON GLI STRANIERI

 

Nei giorni 23 e 24 maggio si è svolto un convegno nel convento francescano di Baida  a Palermo organizzato dalla Comunità di S. Egidio sulla cultura dell’accoglienza degli stranieri alla luce dell’insegnamento del vangelo e della chiesa.

Particolarmente interessante la tavola rotonda che ha visto la partecipazione di alcuni stranieri che hanno sperimentato la capacità di accoglienza umana che riserva la città di Palermo. Pubblichiamo questi interventi

 

UN MONDO PER TUTTI

 

“Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt. 25, 35).

È stato questo titolo, un versetto evangelico che è una delle condizioni poste dal Signore, alla fine dei tempi, per essere accolti nel suo Regno, a fare da cornice al Convegno annuale della Comunità di Sant’Egidio di Palermo, tenutosi presso il Convento dei frati francescani di Baida (23 – 24 maggio). Una due giorni di incontri, meditazioni e preghiera, ormai tradizionale per questa comunità di laici che ha scelto di vivere la centralità della Parola di Dio. Ha scritto Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, in un libro - intervista: “Abbiamo posto la preghiera nel cuore della nostra vita, proprio come risposta agli impegni che ci assorbono. Oggi sono l’Algeria o il Burundi, ieri si lavorava sulle difficoltà degli stranieri, domani saranno quelle degli anziani e di una città che rischia di diventare ancora più inospitale di ieri. Anche se non si può dire che la Comunità sia specializzata in questo o quel tipo di azione. No, l’impegno della Comunità è diversificato ma l’unità si realizza quando l’assemblea si riunisce per pregare. Di Sant’Egidio mi piacerebbe lasciare questa immagine: quella di una comunità in preghiera” (A. Riccardi, Sant’Egidio Roma e il mondo, San Paolo, Milano 1997, p. 213).

Il Convegno di Palermo, fin dal titolo, ha espresso il desiderio di rinnovare una vocazione all’accoglienza che trova radici nel cuore stesso della fede cristiana, tanto più urgente in un tempo che vede fasce sempre più vaste della popolazione in preda a reazioni xenofobe e il diffondersi di una retorica pubblica esplicitamente razzista. Sant’Egidio, che si  ostina a parlare di dialogo in tempi in cui troppi ripetono a memoria gli slogans sull’inevitabile scontro di civiltà, possiede una lunga esperienza di accoglienza maturata in anni lontani, quando in Italia iniziano ad arrivare le prime ondate migratorie e in pochi si interrogano sul futuro. I pacemakers di Trastevere, non ancora resi celebri dalle tante mediazioni di pace in giro per il mondo, reagiscono con un’accoglienza concreta e lungimirante. Nascono le scuole d’italiano Louis Massignon, dove centinaia di stranieri apprendono i rudimenti della lingua italiana e da cui nascerà, in seguito, il movimento Genti di Pace, capace di unire stranieri di etnie e religioni differenti, che trovano in Sant’Egidio la sponda per parlare e farsi ascoltare. L’accoglienza significa anche riflessione, studio, cultura. Tra la fine degli agli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la Comunità cura la pubblicazione di alcuni studi in una collana della Morcelliana, in cui studiosi, politici ed uomini di fede, si interrogano sull’esperienza nuova che sta investendo il nostro paese, e su come reagire senza lasciarsi dominare dalle spinte emotive: L’ospite inatteso, Oltre il mito, Cristianesimo e Islam, Stranieri nostri fratelli. Quest’ultimo, quasi a riprendere il filo di una storia che nasce da lontano, ha dato il titolo alla splendida tavola rotonda che si è svolta domenica mattina. Lorenzo Messina, responsabile della Comunità a Palermo e moderatore della discussione, inizia citando il nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti, Monsignor Veglio, che in una dichiarazione invita i politici ad avere “altri occhi” con cui guardare gli stranieri. Messina cita una serie di dati, che mostrano la presenza in Italia di quattro milioni di stranieri, di cui 3,5 milioni perfettamente regolari, collocando il nostro paese, con il 5,7%, al di sotto di altri grandi paesi dell’Unione europea, quali Spagna (10,2%), Germania (8,8 %), Austria (9,9 %). L’assemblea ascolta attenta, per commuoversi nel momento in cui interviene Giselle, giovane studentessa di biologia, originaria del Congo e residente da otto anni in Italia. Racconta di quell’evento triste e doloroso che è sempre l’emigrazione, delle difficoltà di inserimento, a causa della lingua e di gente senza scrupoli - “mi hanno preso in giro”, dice – che all’inizio, a Perugia, aveva cercato di farla iscrivere ad un falso corso di studi. A Palermo ha conosciuto la Comunità di Sant’Egidio e tanti amici: “Ho capito che la profonda unione a Cristo la rende sollecita verso il prossimo…”.

Anche Niko ha molto di che ringraziare, ma non tanto per qualche dono materiale. Racconta la sua storia di oppositore politico in Albania, ai tempi del regime comunista, della sua fuga per salvare la vita, di come ha iniziato a vivere per strada ed è diventato alcolista. Ora ha smesso di bere: “Non seguo nessuna cura farmacologia, se non quella del rispetto della mia dignità, che mi viene dai miei amici”.

La voce dell’Africa ritorna attraverso la mediazione del dottor Massimo Magnano, medico che segue il programma di cure per l’aids, denominato DREAM, che la Comunità porta avanti in Africa. Parla di Ana Maria, una tra le migliaia di malati che Sant’Egidio ha incontrato in Mozambico, dando loro la possibilità di vivere una nuova vita: “Rappresentano il mistero della resurrezione. La loro vita è passata attraverso l’esperienza degli Inferi”. Ana Maria oggi è un’attivista che testimonia a tanti altri, in Africa, la necessità di fare il test, di curarsi, e come per i malati di aids non vi sia alcun bisogno di nascondersi, spezzando il muro di pregiudizi che ancora li circonda.

Le voci di Giselle, Niko e Massimo, hanno aperto finestre sul mondo, un mondo che non è lontano ma abbiamo sotto casa. Soprattutto, hanno fatto capire come gli stranieri siano una risorsa in questa nostra Europa invecchiata e impaurita.

Davvero, come sottolinea Francesco Falasca, uno dei responsabili nazionali della Comunità, “un mondo per tutti è il più reale dei sogni”.

Vincenzo Ceruso

 

 TESTIMONIANZE

 

Buon giorno sono Nico e vengo dall’Albania. Sono molto contento di stare con voi questa mattina e vorrei ringraziare la Comunità per l’invito a questo convegno e che mi ha dato la possibilità di raccontare la mia storia

Come ho detto sono albanese, l’Albania è un bellissimo paese che sta dall’altra parte dell’adriatico. Ma purtroppo è stato mal governato; è stato schiacciato e isolato dal resto del mondo per colpa della dittatura comunista.

Economicamente l’Albania potrebbe essere un paese ricco perché ricca di molte risorse naturali. L’agricoltura produceva moltissimo, però tutta la produzione veniva esportata e arricchiva solo pochi che detenevano il . potere e niente veniva investito in Albania. Se qualcuno si ribellava veniva accusato di agitazione e propaganda contro il governo rischiando dai 15 a i 20 anni di carcere, se non addirittura la fucilazione.

Ricordo un episodio in cui un mio amico disse che la birra che stava bevendo non gli piaceva e per questo fu arrestato e fece 15 anni di carcere. In parole povere mancava la libertà di parola. Il governo giocò così con il popolo senza scrupoli per 46 anni, violando tutti i più naturali diritti umani. Ma nessuno per paura osava ribellarsi. Fino al l° luglio 1990 quando scoppiò la rivoluzione nel cuore degli albanesi. Credo che il motivo della mia fuga si sia capito. In quel periodo organizzavo spesso manifestazioni di protesta. Un giorno, al ritorno di una di esse, a 200 metri da casa vidi davanti a me un poliziotto e un compagno di scuola. Mi chiesero: “Nico dove stai andando?”. “A casa!” risposi io. “Torna indietro perché se ti vedono ti sparano addosso. La tua casa è piena di poliziotti!”. Seguii il consiglio di quelle due persone e mi avviai verso la periferia di Tirana. Incontrai per strada altre 3 persone che avevano partecipato alla stessa manifestazione e uno dì esse mi disse che avevano arrestato 120 persone e le avevano fucilate in piazza. Sentii un brivido freddo scorrere sulla mia pelle. Camminando arrivammo davanti l’ambasciata italiana. Il mio amico si fermò e ci propose di correre veloce verso di essa e di chiedere asilo politico. Detto fatto. In pochi

secondi arrivammo al cancello. Lo scavalcammo come fanno gli scoiattoli e dopo un salto di 3 metri e mezzo, eravamo dentro l’ambasciata. Il personale ci raggiunse immediatamente e senza chiederci niente ci accompagnò negli uffici dove ci offrirono caffè e biscottini facendoci gli auguri per la nostra salvezza.

Dopo una settimana la gente iniziò ad affollare le ambasciate a Tirana. Era l’inizio della ribellione di un popolo arrabbiato, con il cuore spezzato e le lacrime agli occhi che abbandonava la sua terra. Il 13 luglio, alle 6 del mattino, fummo accompagnati alle navi dall’ex segretario dell’GNU Peres De Quelar, dall’ambasciatore italiano, tedesco, francese e turco. Erano tre navi e noi eravamo 6 mila persone tra uomini, donne, bambini e anziani. La nostra nave attraccò a Brindisi intorno alle 17 e fummo accolti dai brindisini con calore e tanti applausi. Da Brindisi siamo stati trasferiti in un campo militare dove siamo rimasti per un mese e trattati con dignità. Fui trasferito a Palermo il 13

agosto del 1990 con altre 19 persone, e scortati da 4 volanti della polizia ci trasferirono in un paese a 85 km da Palermo. Ma dopo un mese e mezzo è finita questa festa. Infatti siamo stati abbandonati senza lavoro e senza casa dall’assistenza pubblica. Dopo una settimana di trattative con il comune, siamo arrivati all’accordo che ciascuno di noi avrebbe alloggiato in vari posti. A me toccò l’alloggio presso una chiesa. Dopo andai a fare una stagione di lavoro a Sambuca di Sicilia. Dopo, tramite amici tornai a Palermo e trovai un lavoro in un albergo; infine presi in gestione un panificio fino al 2002. Poi purtroppo per ragioni familiari dovetti chiudere il panificio dopo 12 anni e mi ritrovai per

strada con un problema in più: l’alcol.

Prima di prendere questo brutto vizio, ho fatto di tutto cercando di cominciare da capo per vivere dignitosamente ma nessuno mi ha aperto le porte del lavoro. Così cominciai la vita del barbone, senza volerla fare però. Combattevo per non perdere la mia dignità, l’unica cosa che mi era rimasta, visto che la casa, il lavoro e gli affetti li avevo già persi. Difendevo la mia dignità dormendo per strada, ma avevo paura; temevo per la mia vita; temevo che mi potesse succedere qualcosa di brutto, cosa che accadde qualche mese dopo.

Una sera dormivo nella villa vicino al mare, al Foro Italico, quando venni aggredito nel sonno. Fui colpito in pieno volto con una pietra che ha causato un taglio profondo e la frattura della mascella, 12 denti rotti ed altre ferite. Tutto questo per 135 euro e un orologio! Pensate! Potevo morire se non fosse stato per l’intervento dei carabinieri avvertiti da un altro barbone che dormiva 10 metri più in là. Ma come si può morire nel sonno per 2 lire o come quel poveretto che è stato bruciato vivo per scherzo!

La vita del barbone riserva molte sorprese sia nel bene che nel male ma soprattutto nel male.

Ma è giusto che ora vi racconti qualcosa di buono. La maggior parte dei palermitani prova dispiacere per la nostra condizione. Spesso succede che ci rispettano portandoci un pasto caldo come il loro cuore, caldo dei sentimenti che provano verso quegli esseri umani che vivono per strada. Ed è per strada che ho conosciuto i volontari della Comunità di Sant’Egidio. Persone semplici che dedicano le loro ore libere della sera, dopo un giorno di lavoro o di studio.

Sempre col sorriso tra le labbra, con grande affetto e rispetto nei nostri confronti. Persone che ci fa piacere incontrare perché sollevano il grande peso della nostra sofferenza e soprattutto rispettano la nostra dignità . Persone disponibili in qualsiasi ora della giornata come purtroppo è capitato a me. Un giorno che stavo malissimo mi hanno accompagnato in ospedale restando con me tutto il giorno fino a l’una. Sono tornati l’indomani e così anche il giorno dopo quando mi hanno dimesso e mi sono venuti a trovare per vedere come stavo. Ma voglio anche citare una signora che mi ha offerto un alloggio togliendomi dalla strada e dai pericoli, restituendomi un po’ di tranquillità che mi aiuta ad andare avanti e a migliore sempre di più. E voglio dire che ho già iniziato a migliorare. Con la forza del mio combattere e con l’amicizia delle persone che mi vogliono bene veramente, ho deciso di non bere più, e già non bevo da un po’. Non seguo nessuna cura farmacologica se non quella del rispetto della mia dignità di uomo e quella che mi viene dai miei amici.

Approfitto dell’occasione per dire a tutti voi di considerare coloro che vivono per strada come esseri umani e non come nullità o come si dice a Palermo degli “scrafazzati”. Se volete aiutarci veramente considerateci esseri umani, degni di rispetto e allora avremo la forza per andare avanti.

Grazie.

 

 

 

 

Mi chiamo Giselle vengo da Lubumbashi nel sud del Congo e vivo da otto anni in Italia.

Sono venuta per motivi di studio alla fine del 2000. Nel mio paese avevo fatto gli studi di ragioneria e poi sono partita lasciando la mia famiglia, papà mamma, 4 fratelli e una sorella, tutti che vivono in Congo.

Sono arrivata a Perugia e all’inizio non capivo bene l’italiano e ho anche fatto la brutta esperienza di essere presa in giro da alcune persone che mi hanno fatto iscrivere ad un corso di studi assolutamente inutile, che non era l’università che speravo di frequentare.

La gente mi prendeva in giro, diceva che io valevo zero e che dovevo partire da zero, invece io avevo già il diploma. Ma non sapevo che avrei dovuto mandarlo all’ambasciata per il riconoscimento italiano.

Quando dicevo che volevo andare all’università mi rispondevano che costava molto e che non potevo farcela.

Un amico della mia famiglia che viveva in Sicilia si è offerto di aiutarmi invitandomi a venire a Palermo, ma la gente di Perugia mi diceva: che,ci vai a fare? lì c’è la mafia e ti sfrutteranno a lavorare nei campi.

Però sono venuta lo stesso qui a Palermo e dopo un pò di tempo mi sono iscritta alla facoltà d Biologia, e tra molte difficoltà, a cominciare dalla lingua che ancora sto imparando, spero di laurearmi al più presto. In questi anni per mantenermi gli studi ho fatto, e faccio ancora, diversi lavori: badante, baby sitter, pulizie.

Comunque emigrare è sempre un evento triste, avvilente, doloroso che coinvolge dal punto di vista umano molte persone, sia chi parte, che i parenti e gli amici che restano. Ricordo sempre le lacrime di mio padre e di mia madre quando sono partita, e ancora oggi al telefono sono più le lacrime che

le parole.

Ma non è solo la perdita degli affetti più cari, ma anche il distacco da tutto il mio mondo mi ha fatto soffrire, lasciare le mie abitudini, chiedendomi per quanto tempo ... forse per sempre?

So di tante mogli che sono costrette a vivere senza marito con l’intera famiglia da mantenere, figli che crescono senza un padre accanto, che è importante, costretto a lavorare lontano.

Ma so anche di tanti anziani genitori che sono privati dal naturale sostegno dei figli, costretti a partire. Tutto questo non sono solo problemi personali, ma determinano il disfacimento della famiglia.

In occidente poi, non è facile integrarsi per i ritmi frenetici molto diversi da quelli cui si è abituati. Spesso, come accade negli Stati Uniti ma anche qui a Palermo, gli stranieri vivono tutti negli stessi quartieri per tentare di ricostruire le abitudini sociali che vengono lasciate in patria. Per esempio Ballarò, dove abito io, è diventato un quartiere africano nel cuore di Palermo.

Questo movimento di andare verso..... lasciare il proprio paese coinvolge gente di tante nazionalità con lingue diverse, con cui, a volte, è difficile comunicare. Credo che questo sia un evento epocale e tanti avvertono la paura di essere invasi da gente sconosciuta, e il terrore di vedere messe in

discussione le proprie certezze e abitudine.

Anche se la mia storia è un po’ diversa conosco la storia di tanti miei amici africani fuggiti dalla povertà, dalla fame, dalla guerra. A volte non c’è possibilità di scelta; emigrare non è una gita di piacere.

Uomini donne giovani disperati a cui non resta altra scelta che lasciare il proprio paese, la propria terra per andare verso l’ignoto.

Magari verso l’Italia pronta per accoglierli con la galera.

Spesso i viaggi si concludono in modo drammatico con la morte di centinaia di persone. Nella settimana del terremoto in Abruzzo, dove hanno perso la vita 300 persone, altri 300 stranieri morivano in mare per un barcone affondato, ma di questo non si è parlato molto.

In questo periodo si parla di respingimento alle frontiere, ma questo coincide con il mandare la gente a morire nei lager, dove spariscono anche centinaia di bambini. Ma di queste cose non si hanno notizie quindi non se ne parla e non ci pensa nessuno.

Ma anche Gesù è scappato, è stato un rifugiato!!

Il Vangelo di Matteo al capitolo 2° ci racconta la fuga in Egitto al tempo di Re Erode. Una fuga dettata dall’esigenza della salvezza, infatti l’immigrazione contribuisce a coltivare il sogno della salvezza e il sogno di un avvenire di pace. Credo che spetti a ciascuno di noi trasformare questa aspirazione in un futuro possibile.

Diceva il grande Giovanni Paolo Il: “nella sua azione di accoglienza e di dialogo con gli immigrati la comunità cristiana ha come punto di riferimento costante la persona di Cristo Nostro Signore che ci ha lasciato la regola d’oro per l’impostazione della nostra vita che è l’amore”.

Nel 2002 ho partecipato alla Preghiera per la Pace della Comunità di S. Egidio qui a Palermo e sono rimasta molto affascinata dalla presenza di gente di tutto il mondo e di tutte le culture che affollava le vie della città. Ma non sapevo che c’era una Comunità di S. Egidio a Palermo e mi è rimasto il bel ricordo di questa preghiera e di questa accoglienza e apertura verso il mondo.

Dopo 6 anni, il 10 gennaio del 2008, ho visto un manifesto della marcia per la pace della Comunità a Piazza Politeama e con le mie amiche abbiamo deciso di partecipare.

Alla fine della marcia abbiamo capito che c’era una comunità anche qui a Palermo e abbiamo chiesto a Renzo cosa bisognava fare per iscriversi.

Lui sorridendo ci ha invitato alla preghiera a S. Lucia il Lunedì e il Venerdì.

Così ho cominciato a conoscere la comunità e il suo spirito di accoglienza e di amicizia. Pochi mesi fa i miei amici di Palermo mi hanno invitato a passare la settimana santa insieme alla Comunità a Roma, dicendomi di non  preoccuparmi molto per eventuali problemi economici, perché avremmo

trovato la soluzione.

E’ stato bello scoprire quanto la Comunità è unita a Cristo, con i momenti di assemblea, di preghiera, con la via crucis e con la liturgia.

Ho capito che questa profonda unione a Cristo la rende sollecita nei confronti del prossimo, rifuggendo il giudizio, il disprezzo e lo scandalo. Aprendosi all’accoglienza reciproca.

Perché conformati a Cristo ci si sente in Lui fratelli, figli dello stesso padre. Questo tesoro di fraternità rende premurosi nell’ospitalità, come dice Paolo nella lettera ai Romani e così si realizza anche la promessa del Signore che Paolo scrive nella 2 lettera ai Corinzi: E io vi accoglierò e sarò per voi come un padre e voi sarete come figli e figlie.

Grazie per la vostra attenzione.

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009