Vincenzo Noto

 

 

Il compimento di una vita umana

 

È il giorno di Pentecoste. Sto tenendo un corso di aggiornamento ai religiosi etiopi, in un angolo di paradiso, a Debreseit, sulle rive di un lago d’origine vulcanica, con le sponde inondate di fiori. Dopo la prima conferenza propongo otto ore di silenzio, sia per far respirare i miei uditori, sia per godermi l’ebbrezza dello Spirito, facendo un giro, da solo, in barca.
In quell’ambiente da favola non è difficile pregare, anche se i luoghi belli creano una certa nostalgia al pensiero che sarebbero ancora più godibili se contemplati con le persone amate.
Canto  “Veni creator Spiritus”. M’immergo nell’acqua. Penso alla conferenza da tenere alla sera. Mi lascio cullare dal dolce sciabordio delle acque, finché approdo su una sponda, per cercare ristoro alle infuocate vampe del sole meridiano. In tutta quell’immensa distesa non si vede nessun essere umano. E ciò mi dà pace: tutta quella bellezza è  dono delle Spirito solo per me.
Ma presto il mio desiderio di contemplare Dio, e Dio solo, deve fare i conti con una persona che sbuca dalle canne di bambù, discrete guardiane del mio silenzio. Un giovane dall’età indefinibile, storpio, con un viso che sembra abbozzare un sorriso a causa di una bocca troppo larga, con uno sguardo che invoca una relazione. Fatico a capire la sua prima parola, più volte ripetuta: “Solo”. Gli africani mal sopportano la solitudine. E chiara , invece, è la seconda parola: “Povero”, riferito evidentemente a me. Povero perché solo.
Un tumulto di sentimenti m’invade il cuore: la Pentecoste, festa dell’Amore; l’ambiente paradisiaco; il mio  bisogno di stare solo; la mia sete d’avere incontri con persone stimolanti … Ed ecco davanti a me un essere “incompiuto” che mi si accosta per togliermi dalla mia solitudine e per cercare un po’ di affetto. Infatti, quando gli porgo la mano,  me la trattiene e comincia a giocare con le mie dita come se fossimo amici da sempre.
Mi guarda con occhi arrossati e con quel persistente sorriso malato sulla bocca sproporzionata e sfigurata.  Provo a parlargli, ma presto devo desistere. Mi viene voglia solo di piangere, al pensiero di quanto un giovane russo, a Mosca, m’aveva detto: “Basta una lacrima di un bambino innocente per dimostrare che il tuo Dio non esiste”. Ed ecco affollarsi alla mia mente quei brani letterari più volte citati durante le lezioni e le conferenze: Dostoevskij che mette sulla bocca di Ivan Karamazov che non riuscirà mai a credere finché  dovrà fare i conti con la sofferenza di un bambino innocente. E Camus che non può  accettare  la divinità di Cristo perché alla sua nascita i suoi coetanei, innocenti, sono stati ammazzati da Erode.
Quel giovane etiope posa il suo capo sulla mia spalla. Umanamente parlando provo un sentimento di repulsione. Ma lo lascio fare, al pensiero che, in seguito,  non mi sarei mai perdonato d’avere rifiutato la mia spalla  ad una creatura deforme bisognosa d’affetto. Chiudo gli occhi e  invoco lo Spirito Santo di concedermi la grazia di capire che “  pregare significa sentire che il senso del mondo è fuori dal mondo”. Supplico lo Spirito di  darmi la forza di accettare e contraccambiare un po’ di tenerezza.
Tenerezza che – ce l’ha insegnato Cristo, quando una donna gli stava ungendo i piedi – è santa se effusa magari anche solo in vista della morte. Tenerezza che nasce dall’ unione alla fonte di ogni amore, Dio, e che di Lui e del Suo Amore rende testimonianza. Tenerezza che agonizza disperata nel terrore, come durante il nazismo. Tenerezza che addita il compimento di una vita umana non nelle forme esteticamente perfette, propagandate dai canoni televisivi, e difese dalle nostre paure, ma in un corpo che, al di là del limite fisico, mostra la sua Bellezza nella capacità di offrirsi a chi è “solo”, perciò “povero”.
Un corpo incompiuto? Dove sta la compiutezza umana? Non è questa un rimando al compimento in una vita che non avrà mai fine e sarà un progredire in bellezza e in splendore, un perdersi  nell’Infinito?
… e penso all’”Incompiuta”  di Franz Schubert che  intende la musica come compagnia, come  luogo di rapporti umani,  come ricerca di sentimenti veri, per fuggire da una realtà … spietata, imprevedibile e misteriosa. Canto enigmatico. Tristezza sconfinata. Preghiera che fa breccia al cielo.
Ma il capolavoro di Schubert resta incompiuto. Proprio perché l’incompiutezza evoca sentimenti ineffabili e invoca il compimento perfetto là dove la celeste armonia svelerà l’enigma, asciugherà ogni lacrima e avvolgerà ogni creatura nell’ebbrezza di sperimentare che solo in Dio ha senso  l’umana avventura.  Solo in Dio si compie.
E nell’attesa di quel giorno radioso, è bello che tutto resti sospeso sulla prospettiva dell’Infinito che, alla fine, rende bello, già qui in terra, anche il corpo deforme un  giovane etiope.

 

Valentino Salvoldi

 

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009