Vincenzo Noto

 

 

Un lontano incontro

 

Ho terminato di leggere il capitolo “Uno strano prete” di Ignazio Silone. Da tempo non sentivo l’emozione di un santo come don Orione. Pagine vissute con la semplicità più seria. Pagine descritte con la passione dei ricordi. Anch’io, come lui, a volte mi nascondo per non farmi vedere piangere, magari da don Orione. Ho conosciuto Ignazio Silone nella chiesa di Monte Mario , Mater Dei, durante un funerale di un mio confratello. Egli conservava l’emozione di quel ragazzo dagli occhi dello stupore, lucidi ancora sul treno Roma- San Remo, in compagnia di don Orione. Ricordo la sua affabilità nel salutare tutti noi chierici,. personalmente ognuno di noi. Mi strinse forte non solo la mano, incise in me uno suo sguardo profondo, uno sguardo che mi resta ancora dentro,a distanza di tanti anni trascorsi, uno sguardo di intuizioni sull’arte, sul bello, sulla poesia. Sentivo quasi una consegna di un testimone che allora non capivo, la consegna di un impegno nell’ amare e raccontare la vita. Fin d’allora ammiravo il suo stile di Fontamara, Pane e vino, Una manciata di more, l’ammirazione dei cafoni, la bellezza del Seme sotto la neve. Mi spronava l’audacia della sua chiarezza, il coraggio della verità che nei suoi personaggi balzava immediata dalle pagine scritte non con l’inchiostro ma con la passione del cuore. Personaggi simili a quelli vissuti nel mio paese. Ricordi eguali alla mia terra che sa ancora di cafoni intelligenti soltanto a soffrire. Volevo non staccare la mia mano dalla sua. Volevo che fossero eterni quei secondi di saluto. Ma la vita è sempre un distacco per non incollarci a vicenda sul tempo che finisce. Così egli andò via ma non la forza della sua parola, non l’energia effusa dai suoi occhi. Non il suo capo imbiancato di neve candida. Non le sue mani rugose nello scrivere. Non il suo passo lento per incontrare tutti sul portale della chiesa Mater Dei. Volevo raccontargli che anch’io una volta fuggii dal collegio Vittorio Emanuele di Giovinazzo, fuggii non dal portone dimenticato aperto dall’autista di un furgone ma dal muro di cinta alto oltre due metri. Anch’io non sapevo dare una risposta al perché di un tale mio gesto. Anch’io ebbi dinanzi un direttore dalle mani unite e libere solo da un dito che mi minacciava. Anch’io ebbi la paura di non sapere spiegare il fattaccio. Io però mi rifugiai a casa mia non in un albergo presso la stagione di Roma.. E subito i miei mi riportarono in collegio, dove fui acconto da una suora benevola, suor Giulia. Ella mi spiegò con semplicità che amare la propria famiglia è un dono di Dio e che potevo tornare a casa quando e come volevo senza dover scavalcare quel muro così alto che mi sembrava quello di Berlino, tanta era la distanza tra il collegio e casa mia, cinquecento metri appena. Volevo dirgli che nacque tra me e quella suora un dialogo così sincero e semplice da somigliare a quel dialogo tra lui e Don Orione. Tutto questo però non gli ho potuto dire niente. Però nel mio animo mi ero proposto di scrivergli qualche volta. Come è amara la vita senza ricordi e come è amara la vita senza realizzare i sogni e i propri impegni. Per questo oggi nel rileggerti ho sentito una fiammata di ricordi e ti sto scrivendo, caro Ignazio, per scontare la mia promessa mancata.. Qui, non ci sono più cafoni. Anche la terra più isolata ha un sindacalista. Quanto diverso è la tua ribellione sugli operai. Quanto diversi i cafoni di allora, intelligenti e semplici. Sapevano quello che volevano. Sapevano il dolore di una casa senza lavoro. La tua e quella dei tuoi cafoni è una ribellione senza cavalcare le spalle dei disoccupati. Ora invece tutti vogliono fare i sindacalisti per cavalcare l’onda della politica. Che tempi strani. No, non sei tu strano, né don Orione uno strano prete. Senti, te lo dico chiaramente: sono strani loro nel cavalcare i poveri per farsi strada di successo. Non ci hai detto che cosa don Orione ti ha scritto su quella straordinaria e affettuosa lettera lunga dodici pagine, tanto da suscitare gelosia persino a un santo vescovo, mons. Felice Cribellati. Non fa niente. Il cuore consegna sempre. Non fa niente. Tutto si può sapere leggendo gli occhi. Non fa niente, tanto il tempo prima o dopo scopre i segreti dei cuori. Non fa niente se la fonte è amara anche quella della propria casa. Non fa niente se le pagine di una manciata di more oggi sono dimenticate. Stai certo che ci saranno nuovi giovani, nuove menti che apriranno le tue pagine perché il mondo ricominci a camminare sui sentieri delle nostre colline sassose. Tutti si nascondono in questo disastro di società, nessuno ha combinato guai, sono solo frutti di un sistema che tutti portiamo avanti e non nel cuore., Tutti si oscurano nel non sapere, senza sapere che un dito non può celare un monte o una boscaglia di disastri. Voglio anch’io per ora seppellirmi sotto la neve. Si resta puri sotto il cielo della neve. Si resta veri sotto la bufera del ghiaccio. Si resta forti sotto l’uragano delle bufere. Là sotto è custodita l’originalità della propria identità. Là sotto si geme. Là sotto si freme. Là sotto non si ci addormenta mai. Là sotto è l’esercizio più rigido per continuare ad essere. Là sotto anche la luce penetra sicura dal velo candido di ogni neve. Là sotto la vita si custodisce sicura. Là sotto anche le stelle hanno seminato la loro essenza di brillare nel rigido dolore. Là sotto abita il silenzio che genera le sinfonie delle foreste, le sinfonie delle sorgenti. Là sotto si concepisce la luce della speranza. Là sotto ci concepisce ciò che le lacrime irrorano nel cielo. Caro Silone, spunterà il giorno nuovo. Germoglierà il giorno della speranza. L’acqua scorrerà dal gelo e la terra germoglierà prati di viole e di primule di nuovo ardire. La natura fa nuova ogni cosa. Non c’è petrolio che possa incatramare per sempre i giorni del pianeta terra. Non c’è odio che possa spegnere il sorriso del giorno, il sorriso di un vivente. Non c’è arma che possa uccidere il fiato della natura. Non c’è nucleare che possa esplodere il creato e le valli dell’infinito. Non c’è un artiglio di mano umana che possa aggrovigliare i giorni delle stagioni. Sai, me l’hai stretta troppo forte quella mia mano e ora mi sprigionano le tue energie date nell’alito di una consegna, nella luce di un testimone preso per caso dal fato dei giorni. Un testimone che molti sentono nell’energia delle vene dell’arte, della poesia, del vero, del buono e del bello. Un testimone dato da Davide Maria Turoldo, da Alda Merini, da don Tonino Bello, da Genualdo Bufalino, da Salvatore Pappalardo, da Bruno Ghiroldi, da Angelo Vallesi, da Antonio Casile. Tanti, tanti corrono sul percorso della tua vita. Tanti, tanti sono angeli d’intelligenza sul tuo sassoso cammino.

 

Paolo Turturro.

 

 

progetto: SoMigrafica 2009