Vincenzo Noto |
VERITA’ E GIUSTIZIA Credo che sia venuto il tempo di rendere giustizia, di conoscere cioè la verità sui fatti tragici del '92 scrostando la patina di retorica che contribuisce a confondere le idee e che piuttosto che puntare alla ricerca della verità indugia su quella che possiamo definire la ricerca di una verità . Il comprensibile dolore di chi ha perduto i propri cari, la rabbia contro la bestialità dell'agire mafioso sono sentimenti da rispettare, da tenere sempre presenti e, tuttavia, non possono condizionare l'obiettivo di fare luce su coloro che si sono resi responsabili di tali efferatezze. Dico questo perché, non me ne vogliano quanti in buona fede fanno il proprio lavoro rischiando personalmente, ho la convinzione che il condizionamento ideologico, le pregiudiziali storiche di questo Paese, che sono peraltro una delle cause della poco coesione nazionale, si scarichi pesantemente sulle iniziative dirette a trovare la verità e ad impedire che episodi così drammatici abbiano a ripetersi. La lotta alla mafia, l'azione giudiziaria o investigativa non può essere, né deve essere strumento di lotta politica o ideologica, nè può essere il mezzo per affermazioni di ambizioni personali come di fatto avviene o è avvenuto, sarebbe un gravissimo errore. Credo che ne sappiano qualcosa gli stessi mafiosi che alimentando le fantasiose voci su cervellotici teoremi elaborati da menti raffinate capaci di guidare i processi, di fatto hanno inquinato e inquinano le indagini. L'hanno ammazzato loro è l'uscita estemporanea di Totò Riina, dopo anni di rigido silenzio, a proposito della strage Borsellino è, a mio avviso, una chiara manifestazione di come la mafia ed i mafiosi sappiano sfruttare tale luciferina lucidità che solo i pervicaci pregiudizi, e gli interessi ad essi legati, impediscono a coloro che blaterano di mafia, di non comprendere. Giovanni Falcone, l'unico che a mio modo di vedere ebbe l'esatta cognizione del fenomeno mafioso e che per affermare la quale ha pagato un altissimo prezzo, riferendosi al cosiddetto terzo livello, affermava questa suggestiva ipotesi che vede la struttura di Cosa Nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti fra mafia e politica. Una profonda verità che costò a Falcone un pesante carico di accuse tanto ingiuste che infamanti, e che oggi continua ad essere rifiutata da quanti, e questi sono i professionisti dell'antimafia di sciasciana memoria, la considerano poco comoda ai fini della ricerca di una verità . Ciò, naturalmente, non significa che fra gli investigatori, fra quanti dovrebbero rappresentare lo Stato e affermare legalità , non ci possa essere stato, o non ci sia, qualche degenerato, chi sedotto da facili guadagni o dal potere, si sia fatto corrompere agevolando anche in modo decisivo il compimento di efferati delitti o fornendo alibi o coperture a chi li compie o li ha compiuti. La mafia, sosteneva Falcone, è una cosa seria, non si può ridurre a fatto d'operetta e per combatterla è necessario rigore professionale di magistrati e investigatori...senza dilettantismo. Quel che accade va nella direzione opposta a quella indicata da Falcone. Le mobilitazioni pubbliche, più che sentimento di partecipazione, sono divenute spettacolo, momenti in cui le repressioni personali possono venire fuori. Così non è il grido contro la mafia che emerge forte, ma un frastuono nel quale si mischiano soprattutto odi e rabbie diverse in cui l'obiettivo principe è l'ordine costituito , quell'ordine costituito considerato nemico a priori. Le lamentele della signora Borsellino sulla cosiddetta assenza dello Stato, al di del solito carico di retorica spicciola, non tengono conto di tutto questo. La gente vuole essere liberata dalla mafia, vuole vivere in una realtà civile all'altezza dei tempi, non può essere strumentalizzata per le fortune di questo o di quello o per la ricerca di una verità piuttosto che della verità . Pasquale Hamel
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progetto: SoMigrafica 2009